PRESENTAZIONE

giovedì 1 giugno 2023

SERRATI VERSI - Francesco Filia dialoga con Gianni Montieri

 

Ampi margini è l’ultimo libro di poesie di Gianni Montieri - poeta, narratore e critico letterario, -edito da LibeAria editrice, 2022. Si presenta come un libro composito, in quanto riunisce testi e intere raccolte apparse negli anni, dalla pubblicazione di Futuro semplice nel 2010, oltre ad altre sezioni inedite. Questa originale architettura del libro permette di attraversare una parte consistente del percorso poetico di Montieri e di cogllerne le costanti, le variazioni sul tema, la coerenza del dettato e gli aspetti centrali del suo immaginario poetico. A tal proposito ho posto a Gianni, che ringrazio per la disponibilità, alcune domande.

 1)    Ampi margini è un libro, che come tu stesso dici nella Nota al testo,  “guarda al futuro”, ma ripercorre e ripensa il tuo percorso poetico, riproponendo i tuoi libri precedenti, in una versione rivisitata o, come  nel caso di Futuro semplice, hai operato una vera e propria riscrittura. In che relazione stanno nei tuoi versi passato e futuro, e di conseguenza, memoria e attesa?

 Sembra quasi banale dire che sono in pratica la stessa cosa, io sono convinto che viaggino insieme. Nel caso di Ampi Margini guardare al futuro viene proprio dal modo in cui si legano e possano spostarsi insieme tutti quanti i passati. Il caso di Futuro semplice è abbastanza emblematico perché dopo molti anni mi è parso che il tempo a venire dovesse essere indirizzato anche da scelte nuove, lessicali, sintattiche, di sguardo. Si cambia e forse il testo poetico non si esaurisce mai, anche se quando lo diamo a un libro, in qualche modo, lo consegniamo al suo destino. Ma il destino è davvero uno solo? Memoria e attesa appartengono a un unico scenario, mi viene in mente una di quelle scale dei vecchi palazzi di Napoli, cominci a salire, ogni piano è memoria, ed è già attesa del piano successivo, il futuro è dopo la salita, la curva, chissà. Decidiamo di volta in volta con le nostre paure, le nostre curiosità. Il margine è ampio, dentro mettiamoci le possibilità, magari qualche sogno.

2)    Ma la tua è anche una poesia in cui i luoghi hanno un ruolo eminente. I tuoi versi si muovono tra città (Venezia, Milano, Napoli, Giugliano) o nazioni e continenti. Come si presentano i  “luoghi” nel tuo immaginario? Come diventano visione e parola poetica?

 Ho imparato a scrivere camminando, non ho mai smesso. Ho cominciato a scrivere seriamente quando mi sono trasferito a Milano. Camminavo molto da solo, con gli Elefanti Garzanti sottobraccio, volevo imparare il luogo e i poeti che lo avevano attraversato, desideravo un tempo nuovo, Milano lo sembrava, e forse per un lungo tratto di vita lo è stato. Milano era il luogo poetico che chiamava a sé altri luoghi, era il cardine, attraversare a piedi tra Melchiorre Gioia e via Tonale faceva sì che Napoli e Giugliano apparissero con tutta la loro forza, con il tufo e i baratri, con la bellezza e la morte, là mentre aspettavo che scattasse un semaforo vicino alla circumvallazione esterna. I luoghi sono il mio immaginario, quando penso a un verso automaticamente penso a un posto, e il posto è un museo, un balcone, un bar, un tram, una poltrona scassata messa fuori da filosofia come dice una poesia di Ampi margini. Ora vivo a Venezia, più camminare di così si muore, ma è sempre più difficile vedere attraverso il luogo, a volte mi pare ci sia troppa densità, e mi pare che sia sparito lo spazio del silenzio, anche quello è un luogo. Il posto in cui si attendono le parole.

 3)    E poi, in tantissimi tuoi testi, ci sono l’infanzia e l’adolescenza, che rappresentano un tempo che non è più tempo, ma attimo che si staglia nella memoria, come ad esempio nella sezione sul terremoto dell’Ottanta o nelle Sei variazioni sul Pifferaio magico o, tra le altre, nella poesia Il ragazzo nella sezione su Maradona. Che dimensione assume l’archetipo della giovinezza nei tuoi testi?

 La giovinezza, l’adolescenza, mettiamoci pure l’infanzia rappresentano i giorni dell’orizzonte vasto, il campo delle possibilità era vasto, in alcuni giorni ci sembrava sterminato, anche se nella nostra Napoli degli anni ’80 il margine entro il quale sperare ci appariva un po’ ridotto rispetto a chi nasceva a Milano, a Parigi, o a Londra, come si legge bene nelle Sei variazioni sul pifferaio magico. E poi mostrano quella luminosità ingenua nella quale non si ha paura, perché qualcuno ti proteggerà, almeno così dovrebbe essere. Mi pare che si venga da quei giorni, e se in me, in noi, è rimasta un po’ di purezza, o soltanto un guizzo, arriva da quei cortili, da quelle ginocchia sbucciate, dal suono di quelle risate.

 4)    Uno degli aspetti che mi ha sempre colpito della tua scrittura è  la capacità di far rientrare nelle tue poesie la tua attività di “lettore forte” , di recensore e di critico letterario, senza però mai farla risultare un’operazione intellettualistica, basti pensare al ciclo Turisti americani o , anche, ai tanti riferimenti ad autori e libri disseminati nei tuoi testi. Come sei riuscito a creare questo circolo tra letture fatte e versi scritti?

 Mi verrebbe da risponderti che non lo so, ma mentirei, perché credo di saperlo. I libri sono tutta la mia vita, non c’è un istante che io ricordi in cui non ce ne sia uno al mio fianco. Così naturalmente gli autori amati, i romanzi, le poesie, entrano nei miei testi, con la stessa naturalezza con cui entrano una bicicletta, un supermercato, un dolore, Anna, un migrante. Sono le cose, le mie cose, e credo che stiano sempre tutte insieme, se si trova un filo si racconta una storia. Almeno, questa è la mia pretesa, poi non so se ci riesca o meno. Il caso di Turisti americani è poi un esperimento felice, anche se i poeti sperimentali troverebbero la struttura del testo troppo semplice, concediamoglielo. In realtà, l’esperimento consisteva nel prendere alcuni scrittori o scrittrici del cuore e portarli in alcuni luoghi di Napoli molto amati da me, e quasi tutti molto noti, in modo che sovrapponessero il loro sguardo al mio, il loro punto di vista al mio, consentendomi di dire qualcosa di nuovo su alcune situazioni, scene, mantenendo la giusta distanza. Alla fine, la risposta a tutto è questa cosa della giusta distanza, ogni tanto lo diciamo, ma la misura la conosciamo?

Francesco Filia

C’erano ampi margini, confini,
scatti da fare sul fondo, e l’erba
tagliata male. Crossare al centro.
Uno a saltare di testa, potevamo
crescere, raddoppiare in difesa.
Poi cosa è successo? Uno ha preso
un treno, uno è saltato di testa
o per aria. Alcuni sono rimasti
all’intervallo e non si rivestono
un altro ha ancora su la maglia
aspetta il lancio in verticale,
la svolta, ma non ci sono piedi
buoni, né arbitro, guardalinee,
non c’è pubblico, non c’è tribuna
solo il replay di un fuorigioco
fischiato da nessuno.


     Dalla sezione A mio Padre

Adesso mi piace venire al cimitero
da te, mettermi di spalle alla tomba
guardare quello che tu vedi
distese di lapidi e di cappelle
squarci di strade che si intersecano
i tralicci dell’Enel, più avanti
sullo sfondo dev’essere la casa
di zio Antonio, due curve dell’Asse
Mediano se mi volto a destra
il vento di dicembre sulla sciarpa blu
stai al terzo piano e devono piacerti
i cavalli in basso oltre la strada
a sinistra la collina, forse i Camaldoli
tu vedi di più, io lo so che il tuo sguardo
arriva fino alla costa, taglia in due
la Domitiana, si spinge e tiene
insieme tutti i nostri passati.

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