sabato 11 novembre 2023

LA PAROLA CHIAVE: TRE PUNTI SOSPENSIVI - Lucia Triolo

 A mo’ di premessa

L’invito a intervenire nel blog “Tra cima e fondo” con un editoriale intestato, in modo a dir poco rarefatto e (in parte) anche provocatorio, a “3 punti di sospensione” mi ha, in un primo momento, lasciato senza parole. Il tema è del tutto inusuale perché…non è un tema. Non si sono ancora spenti nel mio cuore e nei miei timpani gli echi delle luci, dei colori, delle voci che ho rubati al Festival “A Sud di ogni Altrove” ed eccomi ancora chiamata in causa tenendo tra le mani 3 punti di sospensione. Ma come starvi, come si sta nella sospensione…? La strada mi sembrava tutta in salita. A venirmi in aiuto è stato Google. I fatidici 3 punti indicano nella scrittura, come è lì specificato, il luogo in cui un discorso è stato interrotto o lasciato in sospeso. La strada ora si allungava in discesa. Ho pensato che ciò verso cui avrei fatto bene ad indirizzarmi fossero dei luoghi problematici che tutti  in questo nostro oggi, dobbiamo fronteggiare. E così ne ho isolati 3: “il corpo della donna”. “la guerra”, il “me stessa”. Ecco i miei punti di sospensione; 3 momenti in cui la parola si fa incerta, pensosa, come sospesa e che tuttavia lasciano sospettare una possibile continuità, una sotterranea parentela. La loro scelta è assolutamente personale e non potrei giustificarla in altro modo. Spero sia anche condivisibile. Dal punto di vista metodologico ho adottato il sistema degli aforismi per realizzare l’idea di una scrittura per frammenti e anche perché altrimenti… 3 libri non sarebbero bastati! Avverto però che i 3 punti non stanno sullo stesso piano.: i primi i due insidiano una qualche oggettività; con il terzo “me stessa” si scivola nel soggettivo, nel surreale: insomma, nel personale. 

                                             IL CORPO DELLA DONNA

-C’è un reclamo che il corpo rivolge alla donna: essere vissuto nella luce, senza ipocrisie; essere visto e visto per essere detto. E’ in questione una percezione femminile del corpo come proprio corpo.

-Il corpo della donna è stato sempre illuminato dal versante maschile del desiderio, dove è materia controversa: da questo versante, è fatto per svelarsi ritraendosi e per nascondersi svelandosi (seduzione) al modo dei miti. Come materia del desiderio e dello sguardo maschile il corpo femminile diviene prigioniero del mito.

-In quanto donna subisco violenza; sono morti-ficata ogni volta che l’indipendenza e l’ identità del femminile che mi abita vengono in tutto o in parte svilite nelle piazze del mondo, nel chiacchiericcio dei media, nella frenesia dei mercati, negli uffici e nelle pareti di casa, sulle labbra di un uomo e nel suo cuore.

-La violenza sulle donne continua il mito, prolungandolo assai spesso nella direzione dell’idea che nel corpo femminile vi sia qualcosa di oscuro, perverso, “portatore di peccato” di cui ogni donna deve rispondere -al limite, con la sua stessa vita-  per il fatto stesso di essere tale. In questo senso la violenza sulle donne è radicata in un humus culturale e sociale ben più sottile e profondo di quello che ha espressione visibile nei cosiddetti “femminicidi”. Mortificare, cioè fare morta la donna perché (e solo perché) donna, significa ritenerne paradossalmente la fisicità luogo di male” e quindi “colpa” (necessità di espiazione).

-E’ completamente falsa l’idea che all’evoluzione delle epoche storiche e all’avanzamento della scienza corrisponda un progresso della cultura. Questa falsità è massimamente attestata dallo spettacolo cui oggi assistiamo del prolificarsi degli spazi nel mondo (interi paesi e nazioni) in cui la fisicità femminile deve essere castigata. Si pensi al moltiplicarsi di momenti istituzionali volti a reprimerla e a “purificarla” (qualcosa tipo ministero per la promozione della virtù”).

-Ritenere che il femminile in quanto tale sia (portatore di) "male" significa addentrarsi in una metafisica sostanzialista del corpo e della donna che nulla ha a che fare con azioni, comportamenti, atteggiamenti tenuti dalla persona, anzi ne prescinde a priori. L’essere donna é censurato come materia pornografica nellidea seduttiva che se ne ha.

-I riti di censura della fisicità femminile del desiderio (dal velo all’ infibulazione etc…) non fanno che prolungare la forma maschile del suo mito. Viceversa, se c’è una via al femminile per accedere al corpo è la via ancora accidentata (per molti versi ignota) di una uscita dal mito; la via di un inedito “illuminismo” basato sulla sua capacità di accoglienza.

 -Sul corpo delle donne la violenza si oggettiva, si fa palpabile, viene portata in piena luce nel suo profilo di intollerabilità perché le donne sono fatte per “resistervi”. Sulla loro carne la brutalità sbatte, colpisce, ferisce, uccide ma non penetra.  E’ l’immagine della palla contro un muro.

 -C’è nel fisico femminile qualcosa come un ripudio costitutivo della violenza. Specifico di quest’ultima è l’inclinazione a far leva sulla debolezza dell’altro, per piegare il suo desiderio al proprio. C’è invece un conflitto senza conciliazione possibile fra questa inclinazione e il corpo della donna: come culla della debolezza, accogliere l’altro non ha mai il senso dell’inclusione, della riconduzione al se’, ma quello del lasciar essere e del far crescere                           

                                                                   GUERRA*

 -Pensieri di guerra, ma non con la guerra dentro

 -La guerra ci separa da noi stessi. E’ un vortice che risucchia, un crimine iterativo nel senso che ti stritola e non finisce col trattato di pace. Sullo sfondo c’è la dittatura o un fanatismo: è quasi sempre un pensiero dittatoriale e/o fanatico quello che la genera.

 -Una logica la presiede ed è quella dell’amico/nemico; quella del NOI contro LORO. In questa opposizione, a scomparire è il VOI; il ruolo dell’altro come dirimpettaio e come interlocutore. Ciò che viene chiesto è di difendere i valori in nome dei quali si va in guerra,  senza che abbia più senso porre la questione se siano da tutti condivisibili e condivisi (o persino ignoti). Viceversa l’ipotesi che l’antagonista possa essere nel vero è la condizione di base perché vi sia un interlocutore, perché abbia senso impegnare la parola (piuttosto che un’arma) in una disputa.

 -In una opposizione dove il VOI è assente, L’IO rimane di nessuna importanza nell’agone. Viene risucchiato dentro il NOI. All’uso della ragione personale in ambito socio-politico si sostituisce l’uso della ragione collettiva; cioè quella del gruppo che detiene il potere di costringere altri ad imbracciare le armi: una ragione che non può essere posta in dubbio perché ne va della causa comune. Ora è il NOI a dirigere, il punto di vista da adottare. E il noi nella condizione di guerra, non si costituisce tanto nel rinvio all’idea di un territorio comune di spazi, storia, valori, quanto nel rinvio all’esistenza di un nemico irriducibile contro cui fare fronte, magari, per la difesa di quell’idea.

 -Nobilitato dal fine (difendere l’idea) anche il crimine di guerra (rapimenti, torture, omicidi, bombardamenti etc…) viene coperto dalle istituzioni ed esaltato dal potere che le governa. Partecipare alle azioni di annientamento del nemico, è virtù. Solo chi vi prende parte o tace sulla loro portata di violenza delittuosa è un virtuoso e merita… stelline sul petto e promozione.

 -L’umanità personale si dissolve. Chi si ricorda di avere un volto e non rinuncia a perderla rifiutandosi al potere, viene perseguitato, additato come uno che non ci sta, un nemico. Vive nella paura, quasi sempre muore. E se non muore?

 -Si ha paura per sé stessi e di sé stessi. In tutti i luoghi del tuo disagio inviti la speranza a darti il braccio, poi le lasci un posto accanto alla disperazione e le guardi discutere animatamente, quasi azzuffarsi, magari dinnanzi ad un bicchiere di carta vuoto, asciutto, che le loro mani toccano e senza portarlo alla bocca, stritolano.

 -Il dono di guerra estremo del noi all’io è un assurdo senso di colpa per essere sopravvissuti che si evolve quasi sempre nel ritenersi responsabili di una sorta di complicità involontaria alle azioni belliche. Il sopravvissuto resta tormentato da incessanti interrogativi su se stesso cui è impossibile rispondere: perché i miei (parenti, amici, compagni) sono morti e io sono sopravvissuto? Sei complice perché ancora ci sei. Anche se non hai voluto quel che è accaduto, vi hai preso parte perché e solo perché non sei morto. L’essere in vita é colpa ed è l’ultima cosa di individuale che resta.

 * Di queste considerazioni sono in gran parte debitrice a René Char, Fogli D’Ipnos e a Herta Muller, In Trappola.

                                                            ME STESSA

 -“La fretta di te stesso” travolge; ci finisci dentro con tutte le scarpe, perché è un mezzo di trasporto che, senza accorgertene, prima o poi ti ritrovi a utilizzare

 -Sul nome che mi ospita si affacciano curiosi molti nasi; appartengono ai miei tanti io: si, perché ogni io ha un naso diverso: per questo il mio problema principale è il raffreddore

 -In questa nostra epoca il mio io non ha più nessuna connotazione ontologica; é un flusso di percezioni, sensazioni, emozioni che mutano al mutare di coloro che ne muovono i fili. Quasi solo una maschera momentanea.

 -Mando messaggi alle mie parole, in presa diretta, frasi spezzate: finisco col sapermi come un “sembra”, uno spazio deserto, controvento, un artigiano dell’effimero.

 -Per questo forse amo i semafori, le loro luci, la chiarezza del turno che danno alla vita che non è loro; la suggestione di poter capire e distinguere quando è il momento di passare o di fermarsi. Li amo tanto che perdòno loro persino il giallo: mi ricordo di Dio, al giallo del semaforo.

 -Non avete mai avuto difficoltà a configurare certe sagome come persone e non come cani, gatti, coccodè  etc..?

 -La mia è una casa che combatte contro ognuna delle sue stanze. Nell’armadio poi la tuta si rifiuta alla gruccia e scivola per terra ostinata come una vecchia abitudine deformata dal tempo.

 -Credo che “discorso” non sia solo quello a parole, ma sun interpellare qualcosa o qualcuno fornendo argomentazioni, prima di tutto a se stessi. Il pregiudizio più grosso è la ragione che ci facciamo per gli errori che commettiamo

 -Guardo le mie dita, le conto. Contarsi le dita è un modo di incontrarsi, di contarsi. Ricordare che oltre la loro punta non puoi andare. Segnano il limite. Temo le macchie rosse, specie quelle che non vedo ma che non vengono più via: non sai mai quante persone hai ucciso morti-ficandole

 -E’ lotta quotidiana abitare la profondità contro la superficialità consumistica del mercato globale; non è per nulla detto che si esca vincitori: mi sento in gamba ma proprio in gamba  se riesco ad essere una sorta di segnale d‘allarme a me stessa e agli altri. Come fare devo scoprirlo o trovarlo di volta in volta. Non c’è mai un copyright per essere segnali d’allarme.

 -Ringrazio la mia fragilità: nasco di giorno in giorno, di ora in ora, di volta in volta; nasco nella precarietà, nella contingenza, nella debolezza della parola, dei suoni, delle immagini. Come frecce scagliate nel respiro del mondo e delle cose, inseguo desideri, bisogni, pensieri; quella parte di umanità insomma che riesco ad agganciare; di cui riesco a farmi carico. Credo quasi impossibile essere uomini a tempo pieno perché l’umanità non è una professione. Nessuno ci paga per essere uomini. Ognuno di noi lo è in misura maggiore o minore per così dire, occasionalmente, talvolta anche involontariamente, spontaneamente: ed è la volta più bella.

 

 

 

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