PRESENTAZIONE

lunedì 11 dicembre 2023

LA ROSA DI DICEMBRE - ricordo di Pasquale Vitagliano

 

Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre (James Matthew Barrie)

Prima della malattia, ho rischiato altre volte di morire. Questo, almeno, mi hanno spesso raccontato. Deriverà da qui la fissa per il Settimo Sigillo. Mi accomuna a Woody Allen. Solo che nel mio caso è meno comica. È da un po’ che ti seguo, dice la Morte al Cavaliere. Ho visto il film di Bergman per la prima volta a San Vito di Taranto. A quei tempi, non c’era molta possibilità di scelta in televisione. Ecco che a cinque anni sono rimasto incantato a vedere questo film di cavalieri e saltimbanchi. Non raccontava, però, di duelli e non faceva affatto ridere. Mi è rimasta presente la sensazione di allora, misto di paura, incomprensione e incanto. I romantici ottocenteschi la definirono con la parola sublime. Non so. All’opposto, non saprei darle il nome giusto. Provo solo a descriverla, perché così l’ho provata e la porto ancora con me.

Dai racconti di mia madre, la prima volta è stata a Matera, pochi giorni dalla nascita. Mi stavano cambiando. Io ero sul tavolo della cucina della casa che ospitava questa coppia in cattività. C’era solo lei? C’era anche mia zia? Non si sa. Mio padre su questi fatti è sempre stato insolitamente silenzioso o reticente. Sta di fatto che qualcuno si distrae per un istante ed io rotolo e cado dal tavolo. Oddio. Che spavento. Ovviamente non mi ricordo nulla. Non so come non ti sia fatto niente. Non hai nemmeno pianto. Anzi, proprio per questo ero terrorizzata. Però, quando ti ho preso in braccio, hai sorriso. Figlio mio quante me ne hai fatte passare. Sulla fronte, appena sotto l’attaccatura dei capelli ho una piccola cicatrice. Non so quando me la sia procurata. L’ho sempre collegata a questo episodio. Anche se non mi hanno mai parlato di una ferita.


La seconda volta è capitato a Siracusa. Qui i miei genitori si erano trasferiti per via del lavoro di mio padre, sottufficiale della Marina. Su questo periodo lui è meno laconico. Non poteva comprarsi le sigarette e spendeva un sacco di soldi per acquistare il costosissimo, dicono, cervello di agnello con cui alimentarmi come ricostituente. Mi ero, infatti, preso una difterite. Di questo episodio mio padre ha sempre parlato con angoscia. Devo esserci andato molto vicino. Non si sa come, forse mi ammalai a causa di un latte non pastorizzato. Intorno alle tonsille e alla gola si era già formato un alone infiammato di colore grigio. Addirittura, avevo cominciato ad avere problemi respiratori. Si muore per asfissia. Ci ero già passato. Alla nascita, ero divenuto cianotico, a causa dei miei cinque chili e mezzo. Per la sofferenza che involontariamente le avevo inferto e per la bruttezza dovuta al forte colore scuro, mia madre non volle vedermi sulle prime. Ce la feci. Anche questa volta ce l’ho fatta.


Chissà dove volevi andare? Mia madre l’ha sempre chiamata fuga. Non lo so. Considerato il corredo di secchiello e paletta, credo che volessi andare in spiaggia, semplicemente. Semplicemente per me. Non per un bambino di quattro anni che se ne va da solo per strada. Ancora una volta sono stato in pericolo. Anche di questo episodio non ho più alcun ricordo. In testa mi restano solo vaghe immagini di San Vito. Mio padre lavorava all’Arsenale di Taranto. Gli ho chiesto la via, Via Aguglia. Sono andato su Google Maps ed è stato come viaggiare indietro nel tempo. Le immagini del satellite mi hanno fatto rivedere luoghi familiari che nella mia coscienza non erano affatto scomparsi dopo oltre cinquanta anni.


Via Aguglia è una stradina di accesso a una serie di villette. Sbocca su Viale Jonio, che in realtà è una strada provinciale, la 99. Vista dall’alto è un luogo ambiguo. È un tipico abitato di villeggiatura vicino al mare, nello stesso tempo, sembra uno dei tanti agglomerati caotici e ciechi della periferia urbana, dove depositi e officine, che non sai mai se attive o in abbandono, si mischiano con le abitazioni. La via sbocca in linea con le strisce pedonali che consentono l’accesso sull’altro lato della strada. Qui si alternano una stretta lingua di macchia mediterranea, una precaria zona pedonale scandita da una serie di dissuasori di cemento, e l’accesso irregolare ad una spiaggia e al suo bagnasciuga. Le strisce pedonali mi appaiono un involontario lascito del passato. Mi resta ancora l’immagine di me seduto dentro una carriola da muratore che il padrone di casa, nostro vicino, trasportava per andare al mare, insieme alle due figlie che lo seguivano. Mi ricordo la sua pipa e il basco nero. Per andare al mare attraversavamo quel passaggio, forse, senza bisogno allora di strisce pedonali. Penso poi che questo sia il luogo dove mi sono avventurato da solo gettando mia madre nel panico. Oggi Google Maps mi fa scorgere un segnale con un avviso perentorio e per me definitivo: Area sottoposta a sequestro giudiziario. Vietato l’ingresso.

 

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