PRESENTAZIONE

lunedì 2 dicembre 2024

DIALETTO E VOCI AUTENTICHE : Giacomo Vit

 

GIACOMO VIT

 Per chi frequenta la poesia contemporanea in dialetto, Giacomo Vit non ha bisogno di presentazione. Il suo nome è tra i più conosciuti della generazione dei 60/70 enni, il suo lavoro sulla  parola poetica è costante da diversi decenni. Giacomo è figlio di una tradizione della poesia in lingua friulana ormai storicizzata: da Pasolini a Giacomini, da Federico Tavan a Pierluigi Cappello ma anche Novella Cantarutti, Ida Vallerugo e molti altri. Autore anche di opere narrative, Giacomo Vit ha pubblicato numerose raccolte di poesia nelle quali ha trattato varie tematiche: dal terremoto del 76 alle alluvioni, dalla Shoah alla condizione dei lavoratori, come nella prima poesia che presentiamo. E’ sempre vigile e minuzioso il suo sguardo lirico sul mondo.

                         

 

“ Perché da noi, in Friuli, si dice che anche i morti continuano a lavorare: di notte conserveranno fresca la calce e puliranno i mattoni per le nuove case”.

(Turoldo 

da “Con silenziose cazzuole”)

 

                          CIASSOLIS SIDINIS

                 Cun ciassòlis sidinis a tornaràn i muars

                a tirà su i murs di chistis ciasis, ades che tal

                doimil e dodis a son di nòuf colàdis, parsè

                la malta a si è spacada e a è zuda in slanìs:

                un freit rivàt da li’ fondis dal còur al à

                mudàt in polvara fina chel ch’i erin stàs…

                Cun ciassòlis sidinis a bisugnarà tornà

                a dà sù ‘na malta di peraulis vèris:

                muars e vifs ta un cantèir nòuf par un sanc

                ros e zal, neri e blanc: un furmiès di pinsèirs

                par fa sù catedrals da in duà vuardà

                sbrèndui di imensitàt.

 

Cazzuole silenziose. Con cazzuole silenziose torneranno i morti / a tirar su i muri di queste case, adesso che nel / duemila e dodici sono nuovamente crollate, perché la malta si è spaccata e si è sfatta: / un freddo giunto dalle fondamenta del cuore ha / mutato in polvere sottile ciò che eravamo stati… / Con cazzuole silenziose bisognerà tornare / a spalmare una malta di parole autentiche: / morti e vivi in un cantiere nuovo per un sangue / rosso e giallo, nero e bianco: un formicolio di pensieri / per erigere cattedrali da dove guardare / brandelli d’immensità.

                                  

“E riusciremo a ricomporre quell’armonia tra uomo e casa e paesaggio che era il nostro Friuli?”

(Turoldo da “È il nostro destino”)

 

                          LA BUSATA

 

                Nol è pi uchì il me morar, doma

                ‘na busata, e, ator-atòr, un’arba scura,

                e bistiùtis ch’a còrin cà e là

                sensa nissuna razon.

                S’i mi scufi par vuardà tal font,

                m’inecuarsi che ulà sot

                a àn butàt li’ peraulis che ‘na dì

                plan planc i vèvin cusìt, sintàs

                ta un clap grant, intant ch’i spetàvin

                ch’a rivàssin i dis promitùs.

 

 

La grande buca.       Non è più qui il mio gelso, soltanto / una grande buca, e, tutt’attorno, un’erba scura, / e bestioline che corrono a destra e a manca / senza alcun motivo. / Se mi piego per guardare nel fondo, / mi accorgo che là sotto / han gettato le parole che un giorno / pian piano avevamo cucito, seduti / su un sasso grande, mentre aspettavamo / l’arrivo dei giorni promessi.


 

Giuseppe Zoppelli da Fiorita periferia, Campanotto, 2002

 

Il Friuli di Vit non è “un paese di temporali e di primule”, sempre un po’, in Pasolini, estetizzato, poeticizzato, idealizzato; nemmeno vi è traccia dei caratteri di salute, di laboriosità, di religiosità, di sobrietà con cui si tratteggiava, sino a poco tempo fa, il popolo friulano. Perdita di identità sociale e collettiva, dissoluzione del patriarcato, disgregazione dei modelli di appartenenza, comportamenti sempre più standardizzati da cui cercano di liberarsi, in uno sbocco di coscienza, i devianti e i diversi di Vit, la cui identità, direbbe Remo Bodei con azzeccata formula, è un noi diviso; ecco perché, in fondo, anche il loro comportamento deviante non fa che confermare il prevalere di un’etica individualistica, tanto più che i personaggi sono spesso ritagliati dal contesto sociale, sono in rilievo e come isolati, in particolare dalla famiglia, come se vivessero una condizione di orfanezza, il cui rovescio sono l’anonimato, l’identità frammentata, segmentata o perduta e l’impersonalità. I vinti di Vit: vecchi, bambini, emigranti, emarginati (moribondi, drogati, suicidi), così sintetizzati in un mirabile verso: Un fiousporc, un veciu, un disgrassiat(La vita); e i luoghi di Vit – per nulla crepuscolari – dell’ospedale e dell’ospizio, del ricovero, del manicomio, del mattatoio (centrale nell’opera di un dialettale di prim’ordine come Scataglini), dell’esilio dal consorzio civile e dalla vita: Vous di fioimuars, pa ’na storia dal Friul; Dal zemâ di un ospedal; Letaris dal ricovero; La vita (sezioni esemplari tutte di Mielstrassada, 1985). Ma si veda anche tutta la suite di Chi ch’i sin… (1990), dei tanti disperanti disperati “chi siamo…”, résumés, in fondo, in un unico grande “chi siamo”: questo è il catalogo dell’umanità, della quale il poeta come un Cristo redentore si fa carico, ché sa assumere su di sé tutta la fatica, il male di vivere e portare il dolore del mondo. È il côté engagé di Vit: egli connota sociologicamente le figure umane a cui infonde vita poetica e offre riparo dalle offese della vita. La corona di poesie dedicate ai bambini morti è una Spoon River Anthology friulana (“per una storia del Friuli” è detto) di un cimitero di campagna con piccole croci e lapidi di fronte alla grande Storia e alla cronaca spicciola: ad Attila, allo sfruttamento ottocentesco del lavoro infantile, alla tragedia della seconda guerra mondiale, al terremoto del ’76, al dramma di genitori drogati. Questi bambini non sono mai alla ricerca di un’infantile originaria unità e totalità: sono parti per sempre ferite e amputate dalla storia; e nessun saveurdu terroir in Vit, nessun colore locale: … il paisagiu al è laìt/tal colour e tal savour… (I. Prin dì).

Ma la sua corona di poesie non è solo per una storia dal Friul, la cronaca quotidiana spoglia quella storia di ogni localismo, preme su quelle liriche che, come corpo vivo, chimicamente reagiscono e quella illuminano in un sentimento di condivisone del dolore, se a Saba bastava il volto semita di una capra per riconoscerlo e sentirlo fraterno e uguale, e che anche per Vit è Dolourzimul. Un moto etico muove la poesia di Vit, a ragione definita «eticamente aggressiva»: egli vorrebbe cantare la vita, dire «… che è una cosa/immensa, scintilla dell’Essere,/bene inestimabile…» (La vita) ma di fronte allo scandalo del male, al dolore della vita («le costole di fame del bambino,/la pelle in croste del vecchio,/la gamba strozzata dell’altro»), di fronte al bambino, al vecchio, al deforme le parole cadono – impotenti – a terra frantumandosi: cecidere manus. Vorrebbe, anche Vit, cantare le bellezze del creato, ma «discorrere d’alberi è quasi un delitto»; e siccome la poesia è un bene, un valore collettivo, il poeta non può non essere partecipe di quel male: il buio che inghiotte quei tre, scrive il poeta, senza scadere nel patetico nella demagogia nel populismo, «non risparmia neppure il mio cuore». Eppure il male intacca anche la natura, rode il Vinciar e La planta, insegue la lepre, è «Un velo appiccicato sulle cose», a tal punto che a volte sembra prevalere l’istinto di morte, Thanatos, che incanta e attira nel gorc di nuia dove morte e vita, stessa scussa, si equivalgono. L’immagine della chiocciola frantumata e a pezzi, richiama il tema della banalità del male e della crudeltà, da cui nulla ci preserva, nemmeno le atrocità e le grandi tragedie del secolo appena trascorso, perché, come ci rammenta Vit, dentro quella che è la nostra prigione siamo ora prigionieri ora carcerieri, ora vittime ora carnefici e aguzzini.

La banalità del male è nella tortura e nell’uccisione di un’innocua biscia da parte di bambini che giocano: un serpente d’acqua, non velenoso che a si podeva/lassalunodà/tal fouc dal patùs,/cioc di schivanelis… (Il madràs); così come è nel Sereni di Sarà la noia. Ma è proprio questo il punto: si sarebbe potuto lasciarlo liberamente nuotare, ma non lo si è voluto: libertà, caso, arbitrio (e libero arbitrio) e destino, inestricabilmente aggrovigliati e intricati, dei quali forse nessuno tiene (e conosce), Deus ex machina, il capo del filo. Eppure mai come oggi è viva la coscienza del male, mai così alta è stata nel passato anche recente la soglia della moralità e del sentire morale, al cui innalzamento – piace pensarlo – ha forse contribuito una poesia onesta.

  

Giacomo Vit, già maestro elementare di Bagnarola, in provincia di Pordenone, è autore di opere in friulano di narrativa e di poesia, fra cui si ricordano Chi ch’i sin..., Campanotto, 1990 (Premio Città di San Vito al Tagliamento), La cianiela, Marsilio, 2001 (Premio Thiene-Tonini), Sanmartin, Lietocolle, 2008 (Premio Percoto); Trinfreit, Barca di Babele, 2014 (Premio Pascoli); Vous dal grumal di aria, Puntoacapo, 2018 (Premio Biagio Marin e Premio Ravenna-Mazzavillani); A tàchin a trimàlisas, Puntoacapo, 2021 (Premio lago Gerundo). Ha fondato nel 1993 il gruppo di poesia Majakovskij, col quale ha dato alle stampe quattro volumi. Con Giuseppe Zoppelli ha curato le antologie della poesia in friulano Fiorita periferia, Campanotto, 2002 e Tiara di cunfìn, Biblioteca civica di Pordenone, 2011. Ha pubblicato numerosi libri per l’infanzia e anche alcuni testi teatrali. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento