GIACOMO VIT
“ Perché da noi, in Friuli, si dice che anche i morti continuano a lavorare: di notte conserveranno fresca la calce e puliranno i mattoni per le nuove case”.
(Turoldo
da “Con silenziose cazzuole”)
CIASSOLIS
SIDINIS
Cun ciassòlis sidinis a tornaràn i muars
a
tirà su i murs di chistis ciasis, ades che tal
doimil
e dodis a son di nòuf colàdis, parsè
la
malta a si è spacada e a è zuda in slanìs:
un
freit rivàt da li’ fondis dal còur al à
mudàt
in polvara fina chel ch’i erin stàs…
Cun
ciassòlis sidinis a bisugnarà tornà
a
dà sù ‘na malta di peraulis vèris:
muars e
vifs ta un cantèir nòuf par un sanc
ros e zal, neri e blanc: un furmiès di pinsèirs
par
fa sù catedrals da in duà vuardà
sbrèndui
di imensitàt.
Cazzuole
silenziose. Con
cazzuole silenziose torneranno i morti / a tirar su i muri di queste case,
adesso che nel / duemila e dodici sono nuovamente crollate, perché la malta si
è spaccata e si è sfatta: / un freddo giunto dalle fondamenta del cuore ha /
mutato in polvere sottile ciò che eravamo stati… / Con cazzuole silenziose
bisognerà tornare / a spalmare una malta di parole autentiche: / morti e vivi
in un cantiere nuovo per un sangue / rosso e giallo, nero e bianco: un
formicolio di pensieri / per erigere cattedrali da dove guardare / brandelli
d’immensità.
“E riusciremo
a ricomporre quell’armonia tra uomo e casa e paesaggio che era il nostro
Friuli?”
(Turoldo da “È il nostro destino”)
LA BUSATA
Nol è pi uchì il me morar, doma
‘na busata, e, ator-atòr,
un’arba scura,
e bistiùtis ch’a còrin cà e là
sensa nissuna razon.
S’i mi scufi par vuardà tal
font,
m’inecuarsi che ulà sot
a àn butàt li’ peraulis che ‘na
dì
plan planc i vèvin cusìt, sintàs
ta
un clap grant, intant ch’i spetàvin
ch’a
rivàssin i dis promitùs.
La grande buca.
Non è più qui il mio gelso, soltanto / una grande buca, e,
tutt’attorno, un’erba scura, / e bestioline che corrono a destra e a manca /
senza alcun motivo. / Se mi piego per guardare nel fondo, / mi accorgo che là
sotto / han gettato le parole che un giorno / pian piano avevamo cucito, seduti
/ su un sasso grande, mentre aspettavamo / l’arrivo dei giorni promessi.
Giuseppe Zoppelli da
Fiorita periferia, Campanotto, 2002
Il Friuli di Vit non è “un paese
di temporali e di primule”, sempre un po’, in Pasolini, estetizzato,
poeticizzato, idealizzato; nemmeno vi è traccia dei caratteri di salute,
di laboriosità, di religiosità, di sobrietà con cui si
tratteggiava, sino a poco tempo fa, il popolo friulano. Perdita di identità
sociale e collettiva, dissoluzione del patriarcato, disgregazione dei modelli
di appartenenza, comportamenti sempre più standardizzati da cui cercano di
liberarsi, in uno sbocco di coscienza, i devianti e i diversi di
Vit, la cui identità, direbbe Remo Bodei con azzeccata formula, è un noi
diviso; ecco perché, in fondo, anche il loro comportamento deviante non fa
che confermare il prevalere di un’etica individualistica, tanto più che i
personaggi sono spesso ritagliati dal contesto sociale, sono in rilievo e come
isolati, in particolare dalla famiglia, come se vivessero una condizione di
orfanezza, il cui rovescio sono l’anonimato, l’identità frammentata, segmentata
o perduta e l’impersonalità. I vinti di Vit: vecchi, bambini, emigranti,
emarginati (moribondi, drogati, suicidi), così sintetizzati in un mirabile
verso: Un fiousporc, un veciu, un disgrassiat(La vita); e i
luoghi di Vit – per nulla crepuscolari – dell’ospedale e dell’ospizio, del
ricovero, del manicomio, del mattatoio (centrale nell’opera di un dialettale di
prim’ordine come Scataglini), dell’esilio dal consorzio civile e dalla vita: Vous
di fioimuars, pa ’na storia dal Friul; Dal zemâ di un ospedal; Letaris dal
ricovero; La vita (sezioni esemplari tutte di Mielstrassada, 1985).
Ma si veda anche tutta la suite di Chi ch’i sin… (1990), dei
tanti disperanti disperati “chi siamo…”, résumés, in fondo, in un unico
grande “chi siamo”: questo è il catalogo dell’umanità, della quale il poeta
come un Cristo redentore si fa carico, ché sa assumere su di sé tutta la
fatica, il male di vivere e portare il dolore del mondo. È il côté engagé
di Vit: egli connota sociologicamente le figure umane a cui infonde vita
poetica e offre riparo dalle offese della vita. La corona di poesie
dedicate ai bambini morti è una Spoon River Anthology friulana (“per una
storia del Friuli” è detto) di un cimitero di campagna con piccole croci e
lapidi di fronte alla grande Storia e alla cronaca spicciola: ad Attila, allo
sfruttamento ottocentesco del lavoro infantile, alla tragedia della seconda
guerra mondiale, al terremoto del ’76, al dramma di genitori drogati. Questi
bambini non sono mai alla ricerca di un’infantile originaria unità e totalità:
sono parti per sempre ferite e amputate dalla storia; e nessun saveurdu
terroir in Vit, nessun colore locale: … il paisagiu al è laìt/tal colour
e tal savour… (I. Prin dì).
Ma la sua corona di poesie
non è solo per una storia dal Friul, la cronaca quotidiana spoglia
quella storia di ogni localismo, preme su quelle liriche che, come corpo vivo,
chimicamente reagiscono e quella illuminano in un sentimento di condivisone del
dolore, se a Saba bastava il volto semita di una capra per riconoscerlo e
sentirlo fraterno e uguale, e che anche per Vit è Dolourzimul. Un moto
etico muove la poesia di Vit, a ragione definita «eticamente aggressiva»: egli
vorrebbe cantare la vita, dire «… che è una cosa/immensa, scintilla
dell’Essere,/bene inestimabile…» (La vita) ma di fronte allo scandalo
del male, al dolore della vita («le costole di fame del bambino,/la pelle in
croste del vecchio,/la gamba strozzata dell’altro»), di fronte al bambino, al
vecchio, al deforme le parole cadono – impotenti – a terra frantumandosi: cecidere
manus. Vorrebbe, anche Vit, cantare le bellezze del creato, ma «discorrere
d’alberi è quasi un delitto»; e siccome la poesia è un bene, un valore
collettivo, il poeta non può non essere partecipe di quel male: il buio che
inghiotte quei tre, scrive il poeta, senza scadere nel patetico nella demagogia
nel populismo, «non risparmia neppure il mio cuore». Eppure il male intacca
anche la natura, rode il Vinciar e La planta, insegue la lepre, è
«Un velo appiccicato sulle cose», a tal punto che a volte sembra prevalere
l’istinto di morte, Thanatos, che incanta e attira nel gorc di nuia
dove morte e vita, stessa scussa, si equivalgono. L’immagine della
chiocciola frantumata e a pezzi, richiama il tema della banalità del
male e della crudeltà, da cui nulla ci preserva, nemmeno le atrocità e le
grandi tragedie del secolo appena trascorso, perché, come ci rammenta Vit,
dentro quella che è la nostra prigione siamo ora prigionieri ora
carcerieri, ora vittime ora carnefici e aguzzini.
La banalità del male è
nella tortura e nell’uccisione di un’innocua biscia da parte di bambini che
giocano: un serpente d’acqua, non velenoso che a si podeva/lassalunodà/tal
fouc dal patùs,/cioc di schivanelis… (Il madràs); così come è nel
Sereni di Sarà la noia. Ma è proprio questo il punto: si sarebbe potuto
lasciarlo liberamente nuotare, ma non lo si è voluto: libertà, caso, arbitrio
(e libero arbitrio) e destino, inestricabilmente aggrovigliati e intricati, dei
quali forse nessuno tiene (e conosce), Deus ex machina, il capo del
filo. Eppure mai come oggi è viva la coscienza del male, mai così alta è stata
nel passato anche recente la soglia della moralità e del sentire morale, al cui
innalzamento – piace pensarlo – ha forse contribuito una poesia onesta.
Giacomo Vit, già
maestro elementare di Bagnarola, in provincia di Pordenone, è autore di opere
in friulano di narrativa e di poesia, fra cui si ricordano Chi ch’i
sin..., Campanotto, 1990 (Premio Città di San Vito al Tagliamento), La
cianiela, Marsilio, 2001 (Premio Thiene-Tonini), Sanmartin,
Lietocolle, 2008 (Premio Percoto); Trinfreit, Barca di Babele, 2014
(Premio Pascoli); Vous dal grumal di aria, Puntoacapo, 2018 (Premio
Biagio Marin e Premio Ravenna-Mazzavillani); A tàchin a trimàlisas,
Puntoacapo, 2021 (Premio lago Gerundo). Ha fondato nel 1993 il gruppo di poesia
Majakovskij, col quale ha dato alle stampe quattro volumi. Con Giuseppe
Zoppelli ha curato le antologie della poesia in friulano Fiorita
periferia, Campanotto, 2002 e Tiara di cunfìn, Biblioteca
civica di Pordenone, 2011. Ha pubblicato numerosi libri per l’infanzia e anche
alcuni testi teatrali.
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