venerdì 6 dicembre 2024

"NELLA CODA DELL'OCCHIO" - Daniele Gigli

 

Memoria

 Memoria e desiderio, memoria e desiderio. La memoria che in aprile si risveglia con il risvegliarsi del desiderio, ma che d’inverno si assopisce sotto la coltre rassicurante del freddo dei sensi: «L’inverno ci ha tenuti caldi, coprendo / La terra di neve di scordamento, nutrendo / una vita magra di tuberi secchi».[1]

L’inverno è la stagione della morte, Persefone spacca le viscere di Demetra e torna dal suo sposo oscuro, noi tutti battagliamo questa morte propiziatoria moltiplicando gli sforzi e le brame: è d’inverno che più lavoriamo, è d’inverno che le luci della città s’incendiano, le fabbriche stantuffano, i termosifoni ribollono. Al simbolismo del morire-per-rinascere sostituiamo la grottesca idolatria del semprevivo, in una perversione dell’ordine delle cose che ci ammala e ci umilia.

«Eppure hanno dato il loro nome alla terra».[2] È terribile il salmo – sono sempre terribili i salmi –, è terribile nella precisione chirurgica con cui inchioda alla realtà le nostre fantasie e la nostra protervia: «Nessuno può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo. / Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare / per vivere senza fine, e non vedere la tomba».[3] La nostra vita finirà, le nostre battaglie, le nostre conquiste, gli amori: tutto finirà e non saranno i nostri sforzi a poterne salvare un solo granello. Ed è questa la battaglia – nella dismemoria arrogante di noi tutti, che crediamo di salvarci perché sappiamo accendere un lampione o schiacciare sull’acceleratore e arrivare in un’ora da Torino a Milano; è questa la battaglia, ricordare che come c’è una vita votata alla morte, c’è una morte votata alla resurrezione – e che non saranno le nostre conquiste a ottenercela: «Questa è la sorte di chi confida in se stesso, l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole. / Come pecore sono avviati agli inferi, sarà loro pastore la morte; scenderanno a precipizio nel sepolcro, svanirà ogni loro parvenza: gli inferi saranno la loro dimora».[4]

Non le parole in cui confidiamo, non le cose a cui ci aggrappiamo, se è vero – com’è vero – che un uomo «quando muore, con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria».[5] Una sola cosa, per il salmo, ci distingue dagli altri animali: la memoria dell’eterno e del destino. Ché se è vero – com’è vero – che «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono»,[6] e vero altrettanto che nel segreto del cuore lo spirito ci parla e ci ricorda chi siamo, che «Dio potrà riscattarmi»[7] e che è in questa lotta tra memoria e dismemoria che si gioca la sfida della vita e della morte.

 

(Nota: la traduzione da The Waste Land è dell’autore. I Salmi sono citati secondo la numerazione della Vulgata dalla traduzione di Paolino Beltrame Quattrocchi OSB, 1972-1981).



[1] T.S. Eliot, The Waste Land. I (The Burial of the Dead), 5-7.

[2] Salmo 48, 12.

[3] Salmo 48, 8-10.

[4] Salmo 48, 14-15.

[5] Salmo 48, 18.

[6] Salmo 48, 13; 21.

[7] Salmo 48, 16.


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