PRESENTAZIONE

martedì 26 settembre 2023

SERRATI VERSI - Francesco Filia dialoga con Sebastiano Aglieco

 


Luce della necessità è l’ultimo libro di poesie di Sebastiano Aglieco - poeta, critico, saggista, narratore- edito da Mimesis Hebenon , 2022. Si presenta come un libro con un’idea centrale forte ed enigmatica al tempo stesso, che irradia di sé tutti i testi delle quattro sezioni che compongono l’opera.  Un libro profondamente ‘visionario’, come ribadisce l’autore stesso, con immagini e suggestioni potenti, in cui non manca però una riflessione forte sul senso stesso della parola poetica. Ad una lettura attenta emerge un telos che si dipana in tutti i versi e li rende fili dello stesso tessuto, della stessa apertura di senso che ogni vero testo poetico è. Insomma a parer mio è un libro difficile, come deve essere un libro che non ammicca ai lettori, ma che sa donare a chi lo attraversa una bellezza livida e tersa al tempo stesso.

 

   1) “…proteggete, fratelli che nutro/ queste mura da ciò che sarà in me, in noi/ e date a queste parole la luce della necessità”. Questi versi mi sono apparsi come un’invocazione, enigmatica ma al tempo stesso cristallina, in cui la parola poetica stessa sembra avere il compito di trasformare ciò che è caduco e allo sbaraglio del mondo, in qualche cosa che assuma la “luce della necessità”. Se è così come avviene questo passaggio? È possibile che avvenga?

Credo che ogni vera poesia debba essere contrassegnata da una situazione, che è anche una condizione necessaria. Nel mio caso si tratta della percezione di un sentimento di distanza, sia emotivo che geografico, e quindi uno stato in cui l’essere si trova a vivere un benefico, quanto pericoloso spaesamento. Pericoloso perché è possibile che la parola precipiti in un gorgo, e cioè nel solipsismo della carcerazione -  lo splendido isolamento dei santi, i quali non hanno più bisogno di parlare - ; oppure la parola sente la necessità di ri/vedere, o vedere per la prima volta, qualcosa che è stato celato per eccesso di stratificazioni.

Ogni civiltà e la parola che la rappresenta, accumulando sapere e possesso, in realtà lavorano a stratificarsi, a porsi come reperto archeologico fatto di strati di esperienze e conoscenze. Dove, allora,  il punto iniziale? Il battesimo dell’inizio?

Ma anche benefico spaesamento...la parola isolata, dichiarando la sua fragilità,  dichiara, per conseguenza, o invoca, come dici tu, l’urgenza di assottigliare lo spessore del velo che ci impedisce di vedere. In questo senso la luce, che è interiore, oltre che reale, legata al paesaggio, si fa condizione imprescindibile di un qualche accadere.

Ho molto pensato, mentre scrivevo questo libro, di quanto sia urgente riformulare la famosa condizione indicata da Rimbaud, quella del veggente. Il che vorrebbe dire liberarsi con un solo gesto, di tutto il “poetichese”, spesso nocivo, del Novecento. Farsi ancora veggenti. Che cosa potrebbe significare? Credo che la “veggenza” sia  la condizione del saper guardare oltre se stessi. Vedere qualcosa, indicare qualcosa, farsi abbagliare dalla luce di Paolo sulla via di Damasco. Pur col rischio di una cecità permanente.  

  

    2) “…col nome stretto fra i denti/ col buio che rincorre la tua coda/ la parola si contorce come una bestia azzannata sanguina, non respira” . Come dichiari nella Nota conclusiva devi questo libro, tra le altre, all’apparizione di una volpe che ti ha attraversato al strada. La volpe che appare nei tuoi testi, “Signora della nebbia”, non ha nulla delle volpi antropomorfe presenti in tanta letteratura e in particolar modo nelle favole, ma invece mi sembra evocare una dimensione aliena, selvatica, irriducibile, primigenia, con cui l’uomo e la parola poetica devono confrontarsi. Se è così, in che modo avviene questo confronto?

Questa volpe custodisce nella bocca una parola, un nome. Nel corso della composizione di questi testi, ‘parola’ e ‘nome’ si sono alternati, probabilmente con sfumature di senso leggermente diversi. Il nome è, magicamente, quella cosa che, se viene nominata, permette il possesso della cosa. Quindi il nome va protetto e custodito dagli uomini che, nominando le cose, le riducono al loro possesso. Il nome sarebbe quindi l’entità sacra e nascosta, della cosa che non può, non deve essere detta. La volpe lo custodisce per preservare ciò che di selvatico, irriducibile, è ancora contenuto nella materia, ed è per questo che alla volpe viene tagliata la lingua, nella doppia eccezione di organo anatomico e di “langue”: cioè sistema di segni atto a imbrigliare il mondo nella visione degli umani.

La volpe, in effetti, sogna un mondo primigenio, selvaggio -  il suo mondo spodestato dagli umani -  in cui non esistendo la parola,  l’uomo non poteva esercitare alcun dominio. E’ come se questa volpe avesse rubato agli umani una facoltà pericolosa: la possibilità, attraverso la parola, di fondare il mondo. Per questo la braccano e  infine la uccidono.   

Un’altra possibilità interpretativa è questa: il nome custodito dalla volpe è pericoloso in quanto buono, primigenio, virginale. Ripronunciato, il mondo tornerebbe alla sua innocenza. E’ un po’ la stessa situazione che si viene a creare al termine de “La storia infinita”, il bellissimo libro di Micheal Ende: condizione perché il regno di Fantasia risorga, è dare un nuovo nome all’imperatrice; un nome puro perché, appunto, ripronunciato in uno stato di innocenza ritrovata.  Impossessarsene, quindi, da parte degli uomini, vorrebbe dire distruggere secoli di civiltà. La volpe indica il poeta come colui che può garantire la custodia di questo nome virgineo; un poeta bambino. E la condizione è che questo poeta si svesta dei lussi della sua condizione sociale e sia Nessuno.  Il senza nome. O, in senso positivo, un nome che contiene in sé tutta la rinuncia a voler perpetrare il male  esercitato dagli uomini.

 

 3) Molti tuoi testi fanno riferimento al tuo mestiere di maestro elementare. Al di là della dimensione biografica, da scrittore di poesie e da insegnante a mia volta, mi è sembrato di scorgere un nesso profondo, in te molto di più di altri poeti che a loro volta insegnano, tra il rigore e la compassione (nel senso etimologico) verso l’altro, proprie del tuo lavoro, con quelle necessarie alla scrittura poetica. Come si articola questo rapporto?

La condizione dell’essere bambino da sempre ha attraversato la mia opera. Nel tempo, l’incontro con l’infanzia -  in me stesso, a contatto col bambino che sono stato  e che probabilmente sono ancora -  e, professionalmente, i miei alunni di scuola primaria. Si tratta di un’esperienza profondamente emozionale, ricalibrata alla luce di una ragione che cerca di porsi il problema di come, e perché, l’essere accresca nel tempo i suoi strati psichici, perdendo qualcosa. Tutta la civiltà, è innegabile, si fonda su una rinuncia all’innocenza primordiale, la quale è naturalmente disposta ad aprire lo sguardo, ad instaurare un dialogo. Proviamo a riconsiderare il detto di Gesù -  se ognuno di voi non diventa bambino non può entrare nel regno dei cieli -. Queste parole ci dicono di come l’essere sia effettivamente regredito/progredendo, a una condizione di iperattività psichica, di bulimia del controllo e del potere. Con tutto ciò che ne consegue.

Esercitare il mestiere di insegnante, poi, ti pone drammaticamente a vivere lo spartiacque tra la richiesta, da parte dello Stato, di “far entrare”, di realizzare una progressione dell’essere secondo canoni, e la legge morale del te bambino che ancora ti parla; la quale ti dice che la volpe selvaggia  non può permettere l’assuefazione. Lasciare il bambino, in qualche modo, e per qualche tempo lì, in quel paradiso primordiale indicato da Gesù -  il tempo della classe non è il tempo cronologico del calendario -  è una sfida verso l’istituzione, pena la perdita irreparabile di un’utopia, di una possibilità ad essere “altri”. Quasi tutta la poesia che si legge in giro è adulta, censurata della sua innocenza, persino della sua fragilità e imperfezione. Ne vorrei leggere di più di poesia “ingenua”, consapevolmente ingenua.    

 

    4) Nelle quattro sezioni che compongono il libro sono presenti, nella compattezza e univocità del dettato, varie soluzioni stilistiche: poesie più distese e dialoganti, altre in cui procedi per illuminazioni e folgorazioni che si succedono l’un l’altra, utilizzo di strofe di diverse lunghezza e ampiezza metrica. Come organizzi il tuo dettato poetico? Quali sono le tue scelte formali e linguistiche?

Scrivendo queste poesie,  mi sono accorto, in certi passaggi, che il verso si allungava naturalmente, una cosa che in genere non rientra nelle mie abitudini. Credo che questo dipenda da due cose: la prima è il respiro, e cioè il porsi in percezione parallela, fenomenologica ha scritto qualcuno, rispetto al  più grande respiro della campagna e della natura. Quindi un allungamento del respiro  per sintonia. L’altra, paradossalmente, è legata al raccontare qualcosa, e il raccontare in genere richiede un andamento lungo, “poematico”. Inoltre persiste, nella sezione “Anime di terra buona” dedicata ai bambini, il respiro corto e concentrato del mio libro precedente, “Infanzia resa”, con immagini assai chiare, persino elementari e scoperte, fragili. In genere direi, come sempre mi capita, di avvertire nella scrittura di una nuova raccolta, una sorta di pericolo, di possibilità di errore, e questo succede se non si voglia comodamente sedersi sugli esiti “positivi” dei libri precedenti. Ero molto tranquillo, in effetti, scrivendo “Anime di terra buona” perché quel respiro già lo conoscevo e scaturiva naturalmente. Ero molto preoccupato, invece, per tutto il resto del libro, perché percepivo la novità e il pericolo di una parola che si poneva in modo nuovo, meno stratificato.

Il pericolo maggiore di questo libro,  personalmente credo riguardi la riflessione “filosofica” a cui sono pervenuto. Gli altri che verranno, i quali precedono cronologicamente anche di parecchi anni questo “Luce della necessità”, magari potranno proporsi con un livello di controllo estetico superiore, ma indicheranno sicuramente stadi inferiori di metacognizione.

 


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