PRESENTAZIONE

venerdì 1 marzo 2024

UN LIBRO IN TRE PAROLE - Lucia Triolo

“IL PAESE DEGLI ‘IO’”

IO

Di che parliamo, a cosa ci riferiamo quando diciamo ‘io’? Per che cosa, o meglio, per quale nome sta questo pronome? Per la prima persona singolare? E cosa é mai la prima persona? Può l’ ‘io’ costituire un centro univoco della nostra personalità umana e sociale?

C’è una sorta di drammaticità che incombe su questo pronome. Ha da fare i conti per un verso con la sua gratuità, per l’ altro con la sua ineliminabilità.

“mi è capitato di vivere

a chi altri

é successo?

il mio

è stato solo un caso

ci sto ancora dentro?” (p.15)

Agguantata da questo dualismo antinomico e nell’assillo di voler far giustizia del tratto della gratuità, la percezione esistenziale del soggetto umano scopre, per dirla in termini giuridici, di non riuscire ad essere il dante causa dell’ ‘io’, nello stesso momento in cui, forse per paura di vederlo svanire, ne rivendica il possesso ancorandolo a sé.

“affittavo il mio io

giorno

per giorno

occasionalmente

pronta a pagarlo anche

a rate

talvolta lo pregavo di

non prendere altro treno

di lasciarmi sognare” (p. 27)

Le infinite sfaccettature che lo compongono ne fanno il custode insostituibile di ciò che ciascuno ha da dire, di ciò che ciascuno di noi è, o crede di essere. Non per nulla alla fine del suo percorso siimbatte nel ‘me stesso’. L’ ‘io’ rischia così di divenire il carapace sotto il quale finiscono perarroccarsi gli egoismi e i solipsismi individuali, infrangendosi, come onde, gli uni contro gli altri. 

Diviene un concetto divisorio. Una sorta di piaga sanguinante dentro ogni possibile ‘noi’ “Il Paese Degli ‘Io’” disegna il proprio orizzonte nell’ ospitare l’ assillo, la foga di non smarrire per strada ciò che l’ ‘io ha da dire’, cercando di dar conto contemporaneamente dei pericoli che vi sono connessi: innanzi tutto la potenzialità dissociativa che rischia di fare dell’illimitata ostinazione di questa volontà di parola una gabbia da cui risulta impossibile trarsi fuori.

“la pentola bolliva

borghesemente bolliva

fandonie

e noi

a testa china

sulla versione più pericolosa

di quei portavoce ruffiani che

chiamiamo me

sempre in coppia con se stessi

fans accesi di piccoli ritocchi

di assillanti "lavori in corso"

veloci a rallentare

a fare lo sgambetto

sazi del loro freddo

a divorare brandelli di parole” (p. 54)

VUOTO

Ma può darsi un’unità dell’ ‘io’? La risposta della raccolta è negativa. I ruoli che ognuno di noi ricopre sia nella sfera privata che in quella pubblica mostrano facilmente come la sua ricerca rischi l’utopia. Il mio ‘io’ come madre, non è lo stesso di quello di me figlia, moglie, amante, amica, avoratrice, intellettuale, insegnante, volontaria etc…. A diversificarlo è il modo in cui esso sirapporta alle diverse situazioni del quotidiano e entra in contatto con gli altri che spesso, a lorovolta, si accontentano di accedere alla parte, assumendola, come il tutto.

Questo non vuol dire però che c’è un nocciolo duro destinato a restare incomunicabile. Nella raccolta si cerca di far emergere un percorso di vita gravido della consapevolezza che le stratificazioni esistenziali della prima persona singolare, come le sfoglie di una cipolla, alla fine non lasciano in mano che un vuoto: non si cerca di esprimere un concetto, ma un’esperienza. La drammaticità dell’esistere sarà sempre di gran lunga superiore a qualsiasi teoria sull’irraggiungibilità e molteplicità dell’ ‘io’

“Ho il corpo fatto di

molte pagine

quando ne sfoglio

una

appare qualcosa

che non c’era

in quella precedente

e nemmeno in quella che

viene dopo.

Quasi l’anima

avesse consistenza di

cipolla!

A quale nascita che

mi cresce dentro

rivolgo lo sguardo

mentre mi spoglio?” (p. 20)

————-

“chi è adesso da

prendere in consegna?

chi parla così

in fretta

senza frasi ipotetiche

e custodisce ciò

che non conosce?

chi rivuole indietro

qualcosa

come un io?

cos'è mai avere dentro di sé

un’eco!” (p.34)

IDENTITA’

La questione dell’identità, pur associata a quella dell’’io', se ne discosta per alcune ragioni essenziali. La prima è che manca in essa un punto di scaturigine univoco di cui andare in cerca.

L’identità di un essere umano come anche quella di un prodotto culturale o economico, non giace in un’origine databile cronologicamente o miticamente, ma si costruisce, dentro il tempo, come quell’insieme di caratteristiche che connota ciò di cui si predica. La seconda è che non è suscettibile di moltiplicazioni. Molti possono essere e sono i nostri ‘io’, unica dovrebbe essere la nostra identità.

E’ ad essa che rendiamo omaggio quando parliamo dell’anima o quando pensiamo al nome dell’‘io’. Perderla significherebbe dissolversi nell’indistinto. Da qui la necessità di difenderla costi quel che costi contro tutto e tutti. Anche qui c’è però una nota antinomica. Ciascuno ha diritto alla propria identità; ne avvertiamo la negazione come un vulnus. E tuttavia, rivendicarla può essere una trappola. Non è chi non veda e non conosca il potere divisorio che, ancora più dell’io, l’ identità può finire con l’ assumere e come in suo nome possano essere ingaggiate battaglie se non addirittura guerre, dove a soccombere è sempre il più debole. Sul nostro volto, poi, è la maschera che mette a fuoco le inadempienze costitutive dell’ io.

“la maschera dell’ identità

(donna di classe e gran signora)

dice:

“io è parola senza movente

né referente

danzatore d’oscurità

in

delicata struttura

forza d’animo

in prima persona

entusiasmo graffiante

esige pagamenti in contante e

non dà resto”

la sua grinta è un desiderio,

un intento

sempre lo stesso:

travestirsi da me

la maschera migliore per

essere peggiore” (p. 53)

Disinnescare la miccia dell’identità, non restarne schiavo e vittima sembra allora possibile solo a condizione di non fare del ‘sé’ l’unica modalità del proprio riconoscimento; solo a condizione di

non assolutizzarsi.

“la mia anima oggi non esiste

non ancora,

esisterà domani,

la scaraventerò in uno spazio simbolico

ove tutti ne parleranno

ma nessuno mai la vedrà

perché la mia anima oggi non esiste

non ancora

e mi odia per questo” (p. 49)

L’identità che si lascia ferire segna una soglia, o meglio una frontiera aperta. Se il Paese degli Io si affacciasse su quella ferita, non sarebbe più una prigione. Dentro la parola poetica, in particolare, questo modo di esporsi acquista la forma di un’offerta di sé

“Chi scrive ciò che io scrivo

e quando?

Non so.

C’è un'offerta di me

una trappola al fosforo

un!esuberanza di cuore

guizza dentro

poesie,

taglia a strisce pellicce

di parole

che vengono alla mente di distanze

personali

non la conosco

le dico: fai tu!

Io

sono sorella di Caino

mi ha regalato i guanti

per coprirmi le sue stigmate

insanguinate,

indosso un paio di scarpe strette,

nell!"andare forte è il dolore.

lei

ha per padre un amore” (p. 67)

 

 

  


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