“IL PAESE DEGLI ‘IO’”
IO
Di che parliamo, a cosa ci riferiamo quando diciamo ‘io’? Per che cosa, o meglio, per quale nome sta questo pronome? Per la prima persona singolare? E cosa é mai la prima persona? Può l’ ‘io’ costituire un centro univoco della nostra personalità umana e sociale?
C’è una sorta di drammaticità che incombe su questo pronome.
Ha da fare i conti per un verso con la sua gratuità, per l’ altro con la
sua ineliminabilità.
“mi è capitato di vivere
a chi altri
é successo?
il mio
è stato solo un caso
ci sto ancora dentro?” (p.15)
Agguantata da questo dualismo antinomico e nell’assillo di voler far giustizia del tratto della gratuità, la percezione esistenziale del soggetto umano scopre, per dirla in termini giuridici, di non riuscire ad essere il dante causa dell’ ‘io’, nello stesso momento in cui, forse per paura di vederlo svanire, ne rivendica il possesso ancorandolo a sé.
“affittavo il mio io
giorno
per giorno
occasionalmente
pronta a pagarlo anche
a rate
talvolta lo pregavo di
non prendere altro treno
di lasciarmi sognare” (p. 27)
Le infinite sfaccettature che lo compongono ne fanno il custode insostituibile di ciò che ciascuno ha da dire, di ciò che ciascuno di noi è, o crede di essere. Non per nulla alla fine del suo percorso siimbatte nel ‘me stesso’. L’ ‘io’ rischia così di divenire il carapace sotto il quale finiscono perarroccarsi gli egoismi e i solipsismi individuali, infrangendosi, come onde, gli uni contro gli altri.
Diviene un concetto divisorio. Una sorta di piaga sanguinante dentro ogni possibile ‘noi’ “Il Paese Degli ‘Io’” disegna il proprio orizzonte nell’ ospitare l’ assillo, la foga di non smarrire per strada ciò che l’ ‘io ha da dire’, cercando di dar conto contemporaneamente dei pericoli che vi sono connessi: innanzi tutto la potenzialità dissociativa che rischia di fare dell’illimitata ostinazione di questa volontà di parola una gabbia da cui risulta impossibile trarsi fuori.
“la pentola bolliva
borghesemente bolliva
fandonie
e noi
a testa china
sulla versione più pericolosa
di quei portavoce ruffiani che
chiamiamo me
sempre in coppia con se stessi
fans accesi di piccoli ritocchi
di assillanti "lavori in corso"
veloci a rallentare
a fare lo sgambetto
sazi del loro freddo
a divorare brandelli di parole” (p. 54)
VUOTO
Ma può darsi un’unità dell’ ‘io’? La risposta della raccolta è negativa. I ruoli che ognuno di noi ricopre sia nella sfera privata che in quella pubblica mostrano facilmente come la sua ricerca rischi l’utopia. Il mio ‘io’ come madre, non è lo stesso di quello di me figlia, moglie, amante, amica, avoratrice, intellettuale, insegnante, volontaria etc…. A diversificarlo è il modo in cui esso sirapporta alle diverse situazioni del quotidiano e entra in contatto con gli altri che spesso, a lorovolta, si accontentano di accedere alla parte, assumendola, come il tutto.
Questo non vuol dire però che c’è un nocciolo duro destinato a restare incomunicabile. Nella raccolta si cerca di far emergere un percorso di vita gravido della consapevolezza che le stratificazioni esistenziali della prima persona singolare, come le sfoglie di una cipolla, alla fine non lasciano in mano che un vuoto: non si cerca di esprimere un concetto, ma un’esperienza. La drammaticità dell’esistere sarà sempre di gran lunga superiore a qualsiasi teoria sull’irraggiungibilità e molteplicità dell’ ‘io’
“Ho il corpo fatto di
molte pagine
quando ne sfoglio
una
appare qualcosa
che non c’era
in quella precedente
e nemmeno in quella che
viene dopo.
Quasi l’anima
avesse consistenza di
cipolla!
A quale nascita che
mi cresce dentro
rivolgo lo sguardo
mentre mi spoglio?” (p. 20)
————-
“chi è adesso da
prendere in consegna?
chi parla così
in fretta
senza frasi ipotetiche
e custodisce ciò
che non conosce?
chi rivuole indietro
qualcosa
come un io?
cos'è mai avere dentro di sé
un’eco!” (p.34)
IDENTITA’
La questione dell’identità, pur associata a quella dell’’io', se ne discosta per alcune ragioni essenziali. La prima è che manca in essa un punto di scaturigine univoco di cui andare in cerca.
L’identità di un essere umano come anche quella di un prodotto culturale o economico, non giace in un’origine databile cronologicamente o miticamente, ma si costruisce, dentro il tempo, come quell’insieme di caratteristiche che connota ciò di cui si predica. La seconda è che non è suscettibile di moltiplicazioni. Molti possono essere e sono i nostri ‘io’, unica dovrebbe essere la nostra identità.
E’ ad essa che rendiamo omaggio quando parliamo dell’anima o quando pensiamo al nome dell’‘io’. Perderla significherebbe dissolversi nell’indistinto. Da qui la necessità di difenderla costi quel che costi contro tutto e tutti. Anche qui c’è però una nota antinomica. Ciascuno ha diritto alla propria identità; ne avvertiamo la negazione come un vulnus. E tuttavia, rivendicarla può essere una trappola. Non è chi non veda e non conosca il potere divisorio che, ancora più dell’io, l’ identità può finire con l’ assumere e come in suo nome possano essere ingaggiate battaglie se non addirittura guerre, dove a soccombere è sempre il più debole. Sul nostro volto, poi, è la maschera che mette a fuoco le inadempienze costitutive dell’ io.
“la maschera dell’ identità
(donna di classe e gran signora)
dice:
“io è parola senza movente
né referente
danzatore d’oscurità
in
delicata struttura
forza d’animo
in prima persona
entusiasmo graffiante
esige pagamenti in contante e
non dà resto”
la sua grinta è un desiderio,
un intento
sempre lo stesso:
travestirsi da me
la maschera migliore per
essere peggiore” (p. 53)
Disinnescare la miccia dell’identità, non restarne schiavo e vittima sembra allora possibile solo a condizione di non fare del ‘sé’ l’unica modalità del proprio riconoscimento; solo a condizione di
non assolutizzarsi.
“la mia anima oggi non esiste
non ancora,
esisterà domani,
la scaraventerò in uno spazio simbolico
ove tutti ne parleranno
ma nessuno mai la vedrà
perché la mia anima oggi non esiste
non ancora
e mi odia per questo” (p. 49)
L’identità che si lascia ferire segna una soglia, o meglio una frontiera aperta. Se il Paese degli Io si affacciasse su quella ferita, non sarebbe più una prigione. Dentro la parola poetica, in particolare, questo modo di esporsi acquista la forma di un’offerta di sé
“Chi scrive ciò che io scrivo
e quando?
Non so.
C’è un'offerta di me
una trappola al fosforo
un!esuberanza di cuore
guizza dentro
poesie,
taglia a strisce pellicce
di parole
che vengono alla mente di distanze
personali
non la conosco
le dico: fai tu!
Io
sono sorella di Caino
mi ha regalato i guanti
per coprirmi le sue stigmate
insanguinate,
indosso un paio di scarpe strette,
nell!"andare forte è il dolore.
lei
ha per padre un amore” (p. 67)
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