Io-Isola, Io-Voce
Voce finita e fissa, Io dice il
nome di un’Isola: ma è un’isola-miraggio, soggetta a smarrimenti. Fenomeno,
spettro di apparizioni: che risalgono, col vento di scirocco, lungo il crinale
friabile del sonno, a ripiegare gli orli alla sua veste d’ombra, ai suoi
riflessi, a rammendare nessi a vela, perché traghettino tutto intero il suo
volto di maschera di pietra nel sole fino alla nuova notte, sussurrando il mio
nome dentro il suo.
Moltiplicato e mobile, Io è un
punto nell’infinito piano divino: punto speculare alla immagine sua, punto
sacro e sonoro del suo stesso verbo, punto sull’infinito piano di distese
marine da cui infinite rotte passano, sono passate: passate e già perdute,
nuotando di schiena lungo scie di sirene; passate e per fugaci secoli ritenute
in ormeggio, in ginocchio come pregando a radicare a mani nude papiri e uova di
canneti. Intrecciando, le dita nobili di maestranza e genio, giunchi di fiumi
interni e schiume more in dorati panieri per primizie; o impastando lingue
d’argilla e fuoco in anfore subacquee, ricetto o cattura per inchiostri e
guizzi, tra i silenzi turbati di sale e sabbia, di relitti.
Di ostinata ossidiana, l’Io dice
l’Isola autoctona, identica a sé e immutabile: ma a queste latitudini di tempo,
le trema in gola una voce a sé anteriore di babele. L’Io dice dell’Isola la
perfetta autarchia: ma scricchiolano nella sua voce legni lontanissimi
d’oltreterra e d’oltremare, e come un pianto sospiri di foreste sveve e fischi
d’ascia su fianchi arabi di sambuco, nenie pregreche.
L’Io è l’Isola: porziuncola di
zolla che ha puntato gli alluci per sospingersi via, ribelle al tepore del
legame, all’asfissia gelata del continente, al suo ventre collante di Pangea:
scivolata via e di ogni riva aliena e per ciò stesso esposta, il petto alla
tempesta, le testa alle correnti e alle incursioni, alle nominazioni che la
battezzeranno ora approdo ora naufragio, ora deriva ora affondo tenero per
bandiere e croci di salvezza.
Io sono l’Isola, la mia: ma non
più mia del mio corpo nel suo sfaldarsi e correre alla sottrazione, sfuggente e
solo in prestito. Una, eppure satura di tutti gli altri numeri, terra dischiusa
a scorrerie, mutevoli i confini per marea, per venti e sole, per ira di
ciclopi: giammai per mano, non per opera d’uomo. Non ponti, se non per forza
d’ala, per luce di pensiero. Sensibile alla carezza del deserto, al seme del
maestrale, arresa e vittoriosa, lungo le genealogie non cancellate, non
estirpate, non vinte: nutrite di sangue nuovo e flauti, di innesti su cortecce
sovrapposte.
Io è l’Isola che vive e canta nel sedimento fluido di una lingua,
mia come un mio osso, sterno e otolite di equilibrio: dialetto di acque salse,
faglia sorgiva di tutte le distanze, di ogni sofferta-amata identità, di ogni
solitudine. Eppure, non mera memoria: deboli le braccia non trattengono tutte
le parole della storia, scomposta la materia scivola, non lieve il peso nelle
cose affastellato, gli oggetti ignari rotolano premendo sui loro esili nomi. La
terra che li accoglie ne risucchia il midollo dai legni teneri, ricama sulle
lame il tempo afono come stelle di ruggine. Non mero archeologo, dunque, povero
Io-lingua, misero erede di Idrisi: cartografo, disegna planisferi imperfetti
per la voce, mappe del desiderio, consegnando al presente nulla se non per il
presente rotte dall’arco breve, geografie di delizie ma in scala ridottissima,
sussurrate, appena appena udibili.
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