LA MEMORIA DEL
SUD TRA GENIUS E DAMNATIO LOCI
“Guardate, un paesaggio
classico, il mare, la riva deserta, gli ulivi, il sole, le cicale, la pace, la
sonnolenza, tutto è rimasto immobile e intatto dai tempi della Magna Grecia.
Gli ulivi, il sole e le cicale significavano sonno, abbandono, rassegnazione e
miseria, e ora lì, invece, gli uomini hanno costruito una cattedrale immensa di
metallo e di vetro per scatenarvi dentro il mostro infuocato che si chiama
acciaio e che significa vita”, scrive Dino Buzzati nel docufilm di Emilio
Marsili Il pianeta acciaio nel 1962. Oggi queste parole sembrano assurde, quasi
beffarde. Ci domandiamo se davvero non fu allora un abbaglio pensare che
l’industrializzazione fosse la via obbligata per lo sviluppo e la
modernizzazione del Meridione. Forse il concetto stesso di sviluppo doveva
essere contestato.
Ma esisteva, ed esiste ancora,
una visione e una versione alternativa? Di fronte al successo della Notte della
Taranta che attira in Salento a Melpignano centinaia di migliaia di persone, è
legittimo chiedersi che forse la ricchezza del Sud sta nella sua stessa natura
e nella sua identità.
Se davvero la tarantella fosse
capace di sostituire il mostro di fuoco ne sarei felice. Al momento, sembra,
purtroppo, che sia accaduto il contrario. L’egemonia produttivistica come un
potere minerale è riuscita a ingoiare e digerire anche le culture alternative,
omologandole all’idolatria della quantità e del successo.
Ad un certo punto, a Craco
c’ero già stato due o tre volte senza mai incontrare anima viva, ci trovammo di
fronte una recinzione. Tutela il borgo. Non entrare. Un altro avviso avvertiva
senza tanta convinzione, solo per deterrenza, la presenza di telecamere. In
realtà più di un varco aperto consentiva ancora di entrare dentro il paese
vuoto. Infatti, anche quella volta riuscì a fare la mia passeggiata lunare, una
nuova breve esplorazione in una terra sconosciuta, dentro un corpo che sembrava
ormai privo di vita. La rete collocata dall’amministrazione comunale avrebbe
dovuto essere nelle intenzioni un sistema di protezione. In realtà, si trattava
di fatto di un incarceramento. Craco prima di allora era stato un’esistenza
vegetale aperta a tutti. Apparentemente inerte, invece, donava a ciascuno,
senza fare differenza, qualcosa. Adesso quel corpo era stato costretto dentro
una camicia di forza. Sopravvivevano quei varchi, chissà se involontari, che
non impedivano a noi di entrare, ma al paese di uscire per prendere un po’
d’aria e di libertà, come uno dei picchiatelli di Qualcuno volò sul nido del
cuculo. Anche quella volta, non incontrammo nessuno. Eravamo noi e Craco, e
nessuno altro.
L’ultima volta che sono andato
a vederla c’era la coda. Non si poteva più entrare liberamente. Bisognava
passare da un check point che forniva guida e caschetto di sicurezza, previo
pagamento di un prezzo simbolico per il servizio. Insomma, è finito che hanno
messo in gabbia Craco, come The Elephant man, il deforme John Merrick, per
mostrarlo al circo in un freak show.
Attenzione gente. Per accedere
alla Città Fantasma è necessario munirsi della Craco-card e si deve firmare una
liberatoria sulla sicurezza e sui rischi. Vi ricordiamo che adesso è possibile
acquistare i biglietti on line. “Lasciatemi stare. Non sono un mostro. Sono un
essere umano!”
Ad un certo punto, si è
formata dentro di me un’immagine nitida e ineludibile. Turisti e viaggiatori
prendono sempre due strade opposte. I turisti inseguono la memoria e spesso
questa non è che nostalgia, propria o di altri. I viaggiatori invece la rifuggono,
perché sanno che a volte può fare danni. Può ingannare o bloccare, trasformare
una damnatio in genius loci. Non è questo il dramma del Sud?
Nessun commento:
Posta un commento