Spiragli
«Dal profondo a te grido, Signore».[1] Dal profondo, da questo esilio che è la vita, questo affannato e appesantito correre di moto in moto che c’impolvera i gesti e il respiro – birth, and copulation, and death. Dal profondo, con l’inverno che presto viene, a confortarci nel tepore dei sensi assopiti, a coprirci con una neve di dimenticanza. «A te grido», ma che grido e a chi gridarlo?
I
morti non possono lodare dal sepolcro, possiamo farlo noi? Possiamo noi,
rinchiusi nel sepolcro quotidiano del dare e dell’avere, del sentimento e del
risentimento? «Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba»[2] dice il
salmista e ancora insiste – insiste sempre, il salmista, un grido continuo, un
pertugio scavato a furia di tonsille e di lacrime, uno squarcio, uno spiraglio
tra gli inferi e la terra, tra la terra e il cielo: «Compi forse prodigi per i
morti? O sorgono le ombre a darti lode? / Si celebra forse la tua bontà nel
sepolcro? La tua fedeltà negli inferi? / Nelle tenebre si conoscono forse i
tuoi prodigi, la tua giustizia nel paese dell’oblio?».[3] Nessuna
lode da chi loda idoli che «sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo»,
che «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, / hanno orecchi e non
odono»;[4] idoli che
non hanno «respiro nella loro bocca»,[5] idoli
così simili alla felicità da sembrare la felicità e così simili alla perdizione
da sembrare la perdizione.
Troppo
facile, ammazzare il desiderio per ammazzare l’idolo. Ma quale spazio, allora,
quale spiraglio tra gli inferi e la terra, tra la terra e il cielo? Quale
spazio, quale adiacenza, tra desiderio e corruzione? Quale la via d’uscita?
(Nota:
i Salmi sono citati secondo la numerazione della Vulgata dalla
traduzione di Paolino Beltrame Quattrocchi OSB, 1972-1981).
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