Ci sono dolori che vanno gestiti con lentezza, quasi
accarezzandoli mentre si cerca di ospitarli pezzo a pezzo nella coscienza. Si
manifestassero subito e appieno, lascerebbero dettagli a dir poco sanguinanti.
Somigliano a una macchia minuscola che nel tempo si stempera e dilatandosi si
evidenzia.
Inutile contenerli nella fase acuta.
Più che retti, andrebbero elusi: la distanza all'inizio deve essere netta e decisa.
Ma ciò che resta sospeso è sempre insidioso: Se vi sono orrori, allora sono i nostri orrori, se vi sono abissi, allora quegli abissi ci appartengono, se vi sono pericoli, allora dobbiamo cercare di amarli (Rainer Maria Rilke). Giorno dopo giorno, il sospeso cambia e si adatta, a volte sembra di leggere il circostante “solo attraverso” e, se lo dimentichi, quel momento affrancato nasce con l’usta dell’animale ferito
Ho impiegato un anno a scrivere questi versi. Un anno fa ho incontrato il mio “compagno silenzioso e fido". A un anno esatto dal naufragio, ci siamo abbracciati, insieme abbiamo pianto: lui si è accucciato, io ho iniziato a guardarlo da lontano.
La parola
quella vera
si rifiutò di raccontare la mattanza
finanche il mare che divorò incubi
sogni
e la barchetta di carta
preferì dipingerla la morte
di turchese
e chiese ai cormorani
di costruire una cattedrale fluida
maestosa
sul tortuoso labirinto marino.
Ditelo domani alla gente comune
che dai resti di un naufragio
e cento morti
il mondo eresse monumenti all’accoglienza
flagrò in commosse celebrazioni
ma solo al largo
nei cerchi d’acqua più cristallina
risuona ancora il grido annegato
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