Il
tempore di un’auto in partenza
Ero appena salito in auto, in una
di quelle giornate in cui il buio della sera arriva molto presto, rendendo
tutto avvolgente e silenzioso. Avrò avuto diciassette anni o giù di lì e stavo
aspettando che arrivasse mio padre per accompagnarlo in un paesino vicino e,
per il freddo, avevo acceso il riscaldamento dell’auto. Avevo inserito
nell’autoradio una musicassetta dei Deep
Purle, una registrazione pubblicata da poco che volevo ascoltare durante il
tragitto. L’attesa fu un po’ più lunga, ma si rivelò improvvisamente piacevole,
forse per il calore che pian piano avvolgeva l’abitacolo o per la musica che
avevo iniziato ad ascoltare o, ancora, per quel senso di momentanea pacatezza o
per l’insieme di tutto ciò: una bolla di felicità che si sarebbe fermata dentro
di me e mi avrebbe donato negli anni una piacevole nostalgia e,
contemporaneamente, un senso di appagamento.
Ho sempre amato l’intimità
dell’inverno perché porta con sé il bisogno di ricomporre un mondo o ritrovarlo
in momenti apparentemente insignificanti, un risarcimento fatto di emozioni
profonde e inspiegabili. Dopo molti anni, insistentemente, quel breve ricordo è
riemerso in una poesia: “C’è sempre un
risarcimento / un ciottolo di selce levigato / una disposizione del carbonio
che scintilla / o il fuoco addomesticato / a sedimentare la memoria del cosmo.
L’istante / dove spunta l’inizio dei pensieri / la nascita. // Ci saranno
dissolvenze, la grazia di frammenti / provenienti da lontano, nelle foto / nei
diagrammi dei ricordi. Solo una scena si ripete / sbucando da un’epoca scolpita
/ nel tepore di un’auto in partenza, in un viso trasformato. // Un dettaglio
marginale – sepolto o inaccessibile – / che compensa l’angoscia / la distanza
sconfinata dalle stelle”.
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