domenica 2 giugno 2024

L'INTERVISTA

 


Angela Caccia - Roberta Dapunt
fra pensieri domande e riflessioni

Rileggo ciclicamente i suoi testi: terrosi e implacabilmente religiosi, mi commuovono. Sempre.

  L’ultimo, Sincope - anche questo, come i precedenti, pubblicato dalla Bianca di Einaudi –, prenotato in anticipo – atteso e sollecitato - si è rivelato una insanabile trafittura per quanta distanza dal sapore delle precedenti sillogi. Ne leggevo due pagine e, come offesa, lo riponevo. Non mi riusciva però di archiviarlo senza avvertire un minimo tradimento nei confronti dell’autrice: era frutto che non poteva cadere tanto lontano dall’albero amato. Così è stato: bisognava grattare la parola, latrice e sentinella di afflati prorompenti, consentirle di aprirsi nei suoi molteplici sensi perché svettasse ancora una volta il grande poeta: Sincope si è rivelato, a rilascio lento, un ennesimo innamoramento.

Con Celàn, dico che la poesia della Dapunt inclina ad ammutolire. A leggerla, bisogna fare i conti col silenzio che resta dopo l’ultimo verso -lì, dove si consuma tutta la distanza tra lettore-testo-autore, nel chiaroscuro di significati che sanno/possono vivere solo in sospensione.

 

Poeta è chi impara a non toccare le ali della farfalla e con lei s’invola. E volo e ali e farfalla, tutto questo, ex imo corde, è Roberta Dapunt.

 Alcune mie domande e osservazioni e i suoi convincimenti:

  

Caproni definiva il poeta un minatore, ma lo scrivere di poesia è anche un movimento, per così dire, strabico: uno sguardo gettato al di là di noi e, l’altro, a leggersi dentro. Ecco, allora, che il poetico si sostanzia in un punto di intersezione tra un’interiorità e un fuori, realtà entrambi.

Ma -per lo stesso Caproni - una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere, una stringa, m’ha sempre messo in sospetto, non mi è mai piaciuta. Non l’ho mai usata, nemmeno come lettore, non perché un bicchiere o una stringa siano importanti in sé più del cocchio o di altri dorati oggetti ma, appunto, perché sono oggetti quotidiani e nostri.

Tra poetico e impoetico, quale -se esiste- la soglia?

 Bisognerebbe chiedersi prima cosa è impoetico. O meglio, quali sono le qualità essenziali per avere   un   valore   poetico?   Gli   oggetti   quotidiani   e   nostri, come   dice   Caproni, anche   a   me succede   la   necessità   di   una   fisicità   conosciuta   per   esprimermi   in   versi.   Partendo   dalla condizione umana, cioè dalla totalità dell’esperienza dell’essere umano. L’esistenza di me e di te, ma anche di noi insieme, che siamo capaci di osservare noi stessi e gli altri. È qui che inizia la lingua, dall'osservare, dal considerare con cura ciò che abbiamo di fronte.       

Rivolgere lo sguardo per vedere, posarlo attentamente sulle cose e sulle persone al fine di conoscere meglio, di   rendersi   conto   di   qualche   cosa, di   rivelarne   i   particolari   e   infine   formulare   le considerazioni e i giudizi. La poesia deve raccontare questo, la sua lingua è per sua natura una lingua poetica. Il contrario sarà ciò in cui lei non si riconosce.

  

Sylvia Plath, nei Diari, parla della scrittura come di un rito religioso, una “rieducazione al riamore per gli altri e per il mondo come sono e come potrebbero essere”. Se la lingua inizia dall’osservare al fine di conoscere meglio, e se conoscere è amare - e viceversa, in quel continuo sfociare l’uno nell’altro - non crede che scrivere di poesia, più di qualunque altro genere letterario, si sostanzi nell’uscire fuori da sé per un incontro? Leggo questa specifica tensione nei suoi versi

 La poesia non è la scelta di una lingua con la quale ci si può esprimere. La poesia è una necessità o non è credibile. È questo un primo comandamento, chiamiamolo pure così. Da questo è inevitabile il desiderio, così anche il bisogno dell’incontro. C’è sempre un tu o un voi di   fronte   al   foglio   di   carta, per   quanto   sia   importante   la   solitudine   e   l’introspezione.   Ma potersi rivolgere a un lettore, a un possibile ascoltatore è forse l’unica salvezza per chi si esprime in versi. Tutto questo però succede tra i silenzi di una vita, diventa un vizio difficile ​da   soddisfare   e   non   verrà   detto   ad   alta   voce.   La   poesia   ci   fa   diventare   specialisti   della tribolazione e professionisti dell’insoddisfazione, perché appunto responsabili dello sviluppo delle nostre potenzialità. Questo almeno succede a me, è la mia esperienza di un tentativo di racconto. Io ti racconto, ti dico, ti faccio sapere di me, che sono prima e ultima istanza in ogni verso. Non penso mai di educare scrivendo, succede invece che mi rieduco in continuazione. Ma anche questo succede nel silenzio.        

Quello che dimentichiamo spesso, perché facciamo troppo rumore anche noi poeti che scriviamo poesia rumorosa per essere di oggi. Di oggi a tutti i costi, come se non lo fossimo in verità del corpo.

  

Forza risanatrice, la poesia è postura e stato d’animo, desiderio di un incontro e l’incontro stesso; il poeta è, all’unisono, ascolto e voce, il racconto di un accadere che lo stupisce e lo sorprende, ma La vita, qualche volta, si ritira come un ragno; e bisogna resistere alla cattiva ispirazione di raccogliere le conchiglie (da una lettera di Cristina Campo a Alejandra Pizarnik, del 22.2.1963)

Succede che parlo ad alta voce, dico i versi, le loro parole, una ad una mentre scrivo. È una disciplina che mi accompagna da molti anni ormai. Ho bisogno di sentire, di ascoltare la voce del verbo che scelgo, la cadenza del primo è fondamentale per l’altro che seguirà. Succede a volte, mentre sto dentro a una poesia, di sentire lo stomaco vibrare, e lì capisco che oltre c’è qualcosa di assoluto. Nel mio discorso alla lingua (Nauz,Il Ponte del Sale 2017) scrivo: [ ... ]

 A   noi   carne   è   consentito   provare   turbamenti, gioie, soddisfazioni   che   durano   secondi   e qualche giorno. Poi finiscono, perché anche ci è stato dato di non provare contento sempre! Per ciò che siamo davanti allo specchio può essere un bene oppure no, ma dirimpetto a un foglio bianco deve essere lo sprone, lo stimolo e l’incitamento per riempirlo. Il resto succede febbrile dentro la sagoma di un quaderno, sebbene fuori da qualche parte la fortezza in lettere che tu costruisci dentro con perizia, esiste già [... ].

 Parlo di ciò che l’uomo può solamente percepire e intuire e però nella poesia, ha la possibilità di ancorare a parole. Dopodiché il silenzio, a me piace dirlo al plurale, il ritiro nei silenzi che non contano i minuti. Anche questa è una disciplina difficile, che va imparata.

 

La poesia è getto ma è anche scrittura e riscrittura. Cosa inevitabilmente deve perdere il verso in questo procedere per molature, e cosa e quanto conserva del suo dilucolo

Il getto succede, ma raramente rimane tale nelle mie scritture. Nella mia officina, le parole vanno   ripetute.   Dicendomi   i   versi   mentre   scrivo, l’atto   della   scrittura   si   trasforma   in   una litania.   Cerco   nella   continua   ripetizione   dell’intero   componimento, che   sia   anche   solo   per l’ultimo verso, di levigare e polire, fino ad arrivare ad un’armonia per me ideale tra la parola scritta e la mia voce. Difficile prova, ma se questo si realizza io sono contenta. Ciò implica anche perdere, che   però   in   questo   lavoro   non   equivale   a   una   sconfitta, significa   invece progredire,  capire   il   momento   della   limitazione,   fissare   una   misura   ottimale   alla   lingua​diminuendone il vocabolario. Decido così un tracciamento di confini. Non nella qualità ma nella quantità.

 

Bio bibliografia

Roberta Dapunt è nata nel 1970 a Badia.

 Pubblicazione in varie riviste letterarie e antologie.

 Raccolte pubblicate:

 - OscuraMente, (1993), la carezzata mela (1999), del perdono (2001)

 - la terra più del paradiso (2008), Giulio Einaudi editore.

 - Nauz. Gedichte und Bilder, in ladino con la traduzione in tedesco curata da Alma Vallazza (2012), editore Folio.

- le beatitudini della malattia (2013), Giulio Einaudi editore.

 - dies mehr als Paradies, la terra più del paradiso, traduzione in tedesco curata da Versatorium e diretta da Peter Waterhouse (2016), editore Folio.

 - Nel 2014 in occasione del festival ‹Wege durch da Land› Nordrhein-Westfalen è uscito per la casa editrice omonima il discorso di apertura ‹Rede an die Sprache, un discorso semplice›.

- Nel 2015 è stata presentata la prima esecuzione di Nauz, composizione scritta da Eduard Demetz.

- Nel 2016 è uscito il film NAUZ di Jochen Unterhofer e Florian Geiser, Ammirafilm.

- Nel 2017 CAR(D)O, un dialogo tra poesia, scultura e pittura (Lois Anvidalfarei, Gotthard Bonell), mostra nel Museo storico-culturale di Castel Tirolo. Nel catalogo il CD che presenta la sacra conversazione, in collaborazione con il compositore e violinista Marcello Fera.

- Nauz, versi ladini. Traduzione italiana dell’autrice (2017), Il Ponte del Sale editore

- Nel 2018, pubblicazione della raccolta sincope, Giulio Einaudi editore.

Con la raccolta sincope, vince il Premio Letterario Viareggio-Rèpaci nella sezione poesia 2018.

Nello stesso anno cura la pagina di poesia per I luoghi dell’infinito, il mensile di arte e itinerari culturali di Avvenire.

 Nel 2019 è stata presentata la prima esecuzione assieme al CD Le beatitudini della malattia (Il Diapason Edizioni), composizione scritta da Rolando Lucchi.

E la prima esecuzione di Vërt tla bocia (il verde in bocca, Sincope), 7 Lieder per baritono e pianoforte, compositore Eduard Demetz.

Roberta Dapunt vive a Badia. 

 

 Testi

 

 la mia confessione fedele

 

 Curo i prati come il pavimento della mia casa,

 

guardo l’erba come il tappeto sul quale

 

allignano i figli e un tempo contento.

 

Non vi è obbligo di appartenenza.

 

Ogni filo d’erba è una spettanza,

 

il diritto per l’umiltà di un altro

 

che l’ha preceduto e che io ho falciato,

 

raccolto e scelto per necessità e dottrina.

 

Pulire i prati è levare loro i sassi e contarli,

 

come un atto di compassione

 

ad ogni riverenza che gli concedi.

 

È raccogliere terra sputata dal fondo e seminarla,

 

di nuovo, in segno di generosità verso essa.

 

È forse un lavoro ingrato e fermo al punto di partenza

 

ma è anche la mia confessione fedele,

 

la coscienza che mi riconosco addosso,

 

di essere qui anche per questo.

 la terra più del paradiso, Einaudi 2008

 

 

Che torni pure il sole di Pasqua.

 

Per risorgere il Cristo

 

dentro il mio spirito inconfidente.

 

Da anni sta appeso alla parete,

 

grande crocifisso,

 

le sue stigmate profumano di resina.

 

 Ostinato Tommaso, non credi?

 

 Eppure spesso lo tocco

 

proponendomi di toccarlo ancora più da vicino,

 

sì che ogni volta mi sorprendo in alleanza

 

con l’odore del sangue pitturato al suo costato.

 

 Divina solitudine sulla mia parete,

 

cederei la penna per un giorno di fede.

 la terra più del paradiso, Einaudi 2008

  

Come scrivere altro, altre immagini

 

se quieta sera mi raccoglie sempre uguale,

 

che le storie tristemente volute e contorte

 

rendono simili i versi al dare saggio della propria bravura.

 

Niente di tutto ciò mi lega, che intorno al corpo

 

ho intera l’umana condizione, colei che si addormenta

 

per stanchezza e spessore di mano.

 

Sottratta vita a ogni profanazione, per sacro sentire

 

l’odore indubitabile delle mani d’inverno.

 

È odore di stalla, di latte e di urina,

 

di fieni concilianti al freddo e nel mite lume

 

raccogliere in uno sguardo l’ordine in un fienile.

 

 Ciò è per me intelletto, facoltà di intuire il rapporto

 

nella pratica del rigore. Nulla dipende dai nostri umori soltanto,

 

niente dalle nostre possibilità creative.

 

A cosa serve sapere e compiacersi del sapere

 

se non per distinguere un filo d’erba da un altro.

 le beatitudini della mente, Einaudi 2013

 

   

Una foglia e l’altra. Un’altra di diverso colore

 

e nelle mani dalla carne sfiorita le tieni inespresse,

 

costrette solamente alla loro bellezza.

 

Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo,

 

un filo d’erba che ignora il suo prato.

 Incantevole dono il tuo.

le beatitudini della mente, Einaudi 2013

 

 Che tu possa tenere strette nella mente

 

le orazioni quotidiane, i vespri e le memorie.

 

Che in ogni spazio del tuo cuore siano concubini

 

i misteri dei rosari e le canzoni, di quando

 

fuori tra le erbe a seccare cantavi.

 

Ho pensato in quella prima estate:

 

fossi io la fede sceglierei te come fortezza.

 le beatitudini della mente, Einaudi 2013

 

 

(lo scritto risale al 2019 ed è stato pubblicato sul mio blog personale  Il Ciottolo  Il Ciottolo , l'immagine della Poetessa Dapunt, da lei gentilmente concessa, è nello scatto del fotografo Daniel Töchterle) 

 

 

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