Vuoi acquistare anche il ritorno? mi chiede la biglietteria online
mentre procedo a prenotare il treno per Lamezia Terme. Si tratta di una domanda
banale: le opzioni che la piattaforma mi offre sono ovviamente sì e no.
Eppure in questo momento acquistare il ritorno mi risuona dentro la
mente come una nota stonata e la risposta non so mi pare la più
appropriata al quesito.
Dato che, appunto, sono davanti allo schermo, vado sul più classico dei
motori di ricerca, digito ritorno per cercarne le definizioni e trovo
per prima rientro nel luogo di provenienza. Ma qual è il mio luogo
di provenienza? Rispetto a quale posto agisce la mia nostalgia, il mio dolore
del ritorno?
Ho finito proprio stamane di leggere l’ultimo
librino divulgativo di Carlo Rovelli. Mi piacciono i suoi brevi racconti
scientifici della realtà cosmica, che finiscono sempre per riportarti a te
stesso, alla tua comica realtà umana di frammento del tutto (o del niente),
anche se scrive di buchi neri o bianchi e dei loro orizzonti, dove il tempo
apparentemente scorre molto più veloce e a lungo che nello sprofondo del
collasso di una stella.
Certamente i miei orizzonti sono sempre
azzurri, cobalto, verdi e viola: la mia anima abita lì, nello sguardo perso
lungo lo Jonio, tra Itaca e Squillace, tra Soverato e Steccato di Cutro,
quand’è vento di terra e il mare si distende tanto seducente quanto insidioso,
divenendo quello che ti porta al largo, alla deriva, verso l’illusione di
quella linea che lo separa dal radioso cielo mediterraneo. O quando è vento di
mare e la notte ti sbatte a riva nel naufragio di una fuga da quale che sia la
tua disperazione.
In Calabria si scende. Quando
scendi? è normale chiedere o
sentirsi chiedere. Perché dovunque tu sia la Calabria è sud, è sutta, è un posto che ha a che fare con demoni e radici, terra
migrante e inquieta. La Calabria è un buco nero, è un collasso della storia, la
sua forza di gravità è irresistibile e tu puoi vivere solamente dentro al suo
orizzonte, puoi essere la sua radiazione di Hawking, puoi vivere fin quando sei
entropia, movimento, calore che danza e fluttua in quel margine, mentre da
qualche parte dell’eterna caotica inflazione dell’esistenza nasce un nuovo
universo.
Quando scendo mi muovo dalla mia
residenza del corpo, ma ritorno a quella dell’anima, faccio restanza pendolare, ancorato e spaesato nel mio movimento. Per questo se acquistassi il biglietto
di ritorno in effetti non sarebbe che un’ulteriore andata, danzando
macabramente lungo il sentiero tra la vita e la morte, seguendo il pendolo che
oscilla tra l’essere e il nulla.
In questo misticismo bipolare trovo me stesso,
scavando nel fondo di ricordi confusi, di appercezioni sparse. Torno sulla
piattaforma di Trenitalia; ho altri 7’ e 28” per concludere la transazione.
Sospiro. Sorseggio la spremuta d’arancia che ho appena fatto e versato nella
tazza che mi sta accanto. Mi piace molto questo gusto a metà tra l’aspro e il
dolce; e pensare che da bambino, poiché non volevo mangiare frutta, mia madre
per farmela ingurgitare mi tappava il naso per costringermi ad aprire la bocca
e potercela versare. Se qualcuna ricorresse oggi a queste pratiche di
educazione alimentare sarebbe passibile di denuncia per maltrattamenti in
famiglia.
Non so ancora rispondere alla domanda, mentre
il cronometro è sceso ormai sotto i sei minuti. Cosa posso decidere in questo
tempo? Partire, restare, dormire, sognare, forse? Sono consapevole di me, del
mio tempo, del tempo, anche se il tempo – direbbe Rovelli – in sé non esiste.
Guardo dalla finestra, allora, per vedere che tempo fa. E ricordo quando, tempo
fa, decisi di andar via pensando di andar via da. E invece andavo lungo la via, scoprivo un percorso, fatto di albe e tramonti, in
questo rivoluzionario girar di palle intorno al sole attendendo il suo
collasso, se pur tra qualche miliardo d’anni (cinque pare).
Intanto a me duole la cervicale e tutta la
dorsale: torcicollo, formicolio delle dita della mano e vertigini mi avvertono
che sono esistente e che in fondo devo acquistare un biglietto. Apro ancora
google, digito Calabria e vado a rileggermi la storia della microplacca che insieme
alla Corsica e alla Sardegna 20 milioni d’anni fa si stacca dalla Provenza e
inizia a vagare per il pelago fino ad agganciare da sola il continente, giusto
lì dove finiva la dorsale appenninica ormai emersa. Anche la Calabria, la sua
latitudine e longitudine è un illusione momentanea, una migrazione di terra
verso sud: terra di migranti e di briganti, d’estate di bagnanti, troppo spesso
di lagnanti.
Ho solo 2’ e 22” per concludere l’acquisto
dell’opzione di viaggio che ho selezionato, mentre la finestra con la domanda
sul ritorno rimane ancora appesa lì, in mezzo allo schermo. Dallo smartphone il
suono di una notifica mi distrae. Prendo il dispositivo, ne accendo lo schermo
premendo il pulsante laterale, e vedo che è arrivato un messaggio su WhatsApp.
Mi raccomando: il 18 agosto tieniti libero che
abbiamo la premiazione di Calabria in Versi, al parco archeologico di
Scolacium!
Ecco qual è casa mia, dove devo tornare, tra i
ruderi e gli ulivi secolari, sulla terra calpestata da greci, romani, bizantini
e normanni; riunire quei pezzi di me sparsi ogni dove, illudendomi di invertire
il processo della mia entropia.
Non vedo contraddizione tra essere un hombre
vertical e essere uno
orizzontale. Anche se sei tutto d’un
pezzo quando stai in piedi e guardi lontano avrai davanti un orizzonte. Ma uno
orizzontale sarà anche la prima
definizione di un cruciverba che vai a guardare, il primo approccio alla
soluzione enigmistica, in questa deriva enigmatica e mistica in cui mi sto
perdendo mentre cerco la mia via di fuga, la soluzione tra partenza, ritorno,
restanza, nel gioco della nostalgia e della sue mille sfumature, nell’attesa
del mio salto quantistico spazio-temporale.
Quando torno sulla schermata della
biglietteria il tempo utile per l’acquisto è scaduto, anche se, come già detto,
il tempo non esiste.
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