sabato 21 giugno 2025

TELEFONICA, la rubrica delle pagine bianche: Uno orizzontale - a cura di Valerio De Nardo

 

Vuoi acquistare anche il ritorno? mi chiede la biglietteria online mentre procedo a prenotare il treno per Lamezia Terme. Si tratta di una domanda banale: le opzioni che la piattaforma mi offre sono ovviamente e no. Eppure in questo momento acquistare il ritorno mi risuona dentro la mente come una nota stonata e la risposta non so mi pare la più appropriata al quesito.

Dato che, appunto, sono davanti allo schermo, vado sul più classico dei motori di ricerca, digito ritorno per cercarne le definizioni e trovo per prima rientro nel luogo di provenienza. Ma qual è il mio luogo di provenienza? Rispetto a quale posto agisce la mia nostalgia, il mio dolore del ritorno?

Ho finito proprio stamane di leggere l’ultimo librino divulgativo di Carlo Rovelli. Mi piacciono i suoi brevi racconti scientifici della realtà cosmica, che finiscono sempre per riportarti a te stesso, alla tua comica realtà umana di frammento del tutto (o del niente), anche se scrive di buchi neri o bianchi e dei loro orizzonti, dove il tempo apparentemente scorre molto più veloce e a lungo che nello sprofondo del collasso di una stella.

Certamente i miei orizzonti sono sempre azzurri, cobalto, verdi e viola: la mia anima abita lì, nello sguardo perso lungo lo Jonio, tra Itaca e Squillace, tra Soverato e Steccato di Cutro, quand’è vento di terra e il mare si distende tanto seducente quanto insidioso, divenendo quello che ti porta al largo, alla deriva, verso l’illusione di quella linea che lo separa dal radioso cielo mediterraneo. O quando è vento di mare e la notte ti sbatte a riva nel naufragio di una fuga da quale che sia la tua disperazione.

In Calabria si scende. Quando scendi? è normale chiedere o sentirsi chiedere. Perché dovunque tu sia la Calabria è sud, è sutta, è un posto che ha a che fare con demoni e radici, terra migrante e inquieta. La Calabria è un buco nero, è un collasso della storia, la sua forza di gravità è irresistibile e tu puoi vivere solamente dentro al suo orizzonte, puoi essere la sua radiazione di Hawking, puoi vivere fin quando sei entropia, movimento, calore che danza e fluttua in quel margine, mentre da qualche parte dell’eterna caotica inflazione dell’esistenza nasce un nuovo universo.

Quando scendo mi muovo dalla mia residenza del corpo, ma ritorno a quella dell’anima, faccio restanza pendolare, ancorato e spaesato nel mio movimento. Per questo se acquistassi il biglietto di ritorno in effetti non sarebbe che un’ulteriore andata, danzando macabramente lungo il sentiero tra la vita e la morte, seguendo il pendolo che oscilla tra l’essere e il nulla.

In questo misticismo bipolare trovo me stesso, scavando nel fondo di ricordi confusi, di appercezioni sparse. Torno sulla piattaforma di Trenitalia; ho altri 7’ e 28” per concludere la transazione. Sospiro. Sorseggio la spremuta d’arancia che ho appena fatto e versato nella tazza che mi sta accanto. Mi piace molto questo gusto a metà tra l’aspro e il dolce; e pensare che da bambino, poiché non volevo mangiare frutta, mia madre per farmela ingurgitare mi tappava il naso per costringermi ad aprire la bocca e potercela versare. Se qualcuna ricorresse oggi a queste pratiche di educazione alimentare sarebbe passibile di denuncia per maltrattamenti in famiglia.

Non so ancora rispondere alla domanda, mentre il cronometro è sceso ormai sotto i sei minuti. Cosa posso decidere in questo tempo? Partire, restare, dormire, sognare, forse? Sono consapevole di me, del mio tempo, del tempo, anche se il tempo – direbbe Rovelli – in sé non esiste. Guardo dalla finestra, allora, per vedere che tempo fa. E ricordo quando, tempo fa, decisi di andar via pensando di andar via da. E invece andavo lungo la via, scoprivo un percorso, fatto di albe e tramonti, in questo rivoluzionario girar di palle intorno al sole attendendo il suo collasso, se pur tra qualche miliardo d’anni (cinque pare).

Intanto a me duole la cervicale e tutta la dorsale: torcicollo, formicolio delle dita della mano e vertigini mi avvertono che sono esistente e che in fondo devo acquistare un biglietto. Apro ancora google, digito Calabria e vado a rileggermi la storia della microplacca che insieme alla Corsica e alla Sardegna 20 milioni d’anni fa si stacca dalla Provenza e inizia a vagare per il pelago fino ad agganciare da sola il continente, giusto lì dove finiva la dorsale appenninica ormai emersa. Anche la Calabria, la sua latitudine e longitudine è un illusione momentanea, una migrazione di terra verso sud: terra di migranti e di briganti, d’estate di bagnanti, troppo spesso di lagnanti. 

Ho solo 2’ e 22” per concludere l’acquisto dell’opzione di viaggio che ho selezionato, mentre la finestra con la domanda sul ritorno rimane ancora appesa lì, in mezzo allo schermo. Dallo smartphone il suono di una notifica mi distrae. Prendo il dispositivo, ne accendo lo schermo premendo il pulsante laterale, e vedo che è arrivato un messaggio su WhatsApp.

Mi raccomando: il 18 agosto tieniti libero che abbiamo la premiazione di Calabria in Versi, al parco archeologico di Scolacium!

Ecco qual è casa mia, dove devo tornare, tra i ruderi e gli ulivi secolari, sulla terra calpestata da greci, romani, bizantini e normanni; riunire quei pezzi di me sparsi ogni dove, illudendomi di invertire il processo della mia entropia.

Non vedo contraddizione tra essere un hombre vertical e essere uno orizzontale. Anche se sei tutto d’un pezzo quando stai in piedi e guardi lontano avrai davanti un orizzonte. Ma uno orizzontale sarà anche la prima definizione di un cruciverba che vai a guardare, il primo approccio alla soluzione enigmistica, in questa deriva enigmatica e mistica in cui mi sto perdendo mentre cerco la mia via di fuga, la soluzione tra partenza, ritorno, restanza, nel gioco della nostalgia e della sue mille sfumature, nell’attesa del mio salto quantistico spazio-temporale.

Quando torno sulla schermata della biglietteria il tempo utile per l’acquisto è scaduto, anche se, come già detto, il tempo non esiste.


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