venerdì 29 settembre 2023

A SUD DI OGNI ALTROVE - Sergio Pasquandrea

 


Esistono tanti Sud quanti sono i meridionali.

“Sud” è l'idea platonica, le cui ipostasi cambiano di soggetto in soggetto. Se ci aggiungiamo che l'Io, o ciò che chiamiamo tale, è un mulinello di personalità in costante lotta, possiamo forse spiegare perché i miei ormai sempre più rari ritorni al Sud attraversino fasi grosso modo fisse: impatto (le immagini familiari, gli odori, i suoni del vernacolo, i piedi che ritrovano da soli la strada di casa); anamnesi (il passato si affaccia con intensità quasi dolorosa); delibazione dei ricordi; presa di contatto con la realtà; ricordo del perché me ne sono andato; senso di soffocamento; desiderio di fuga (di solito, non oltre il terzo giorno); partenza.

Da qualche anno, il mio Sud personale, ossia quella particolare cittadina, con la sua topografia, le sue isoglosse dialettali, i suoi campanili che terminano in cipolloni maiolicati e multicolori, insomma il mio natìo borgo selvaggio, ha una lacuna, un punto vuoto. E quel punto vuoto coincide con la mia casa. Che c'è, ma è stata venduta, ristrutturata, quindi non è più la mia casa, non si sovrappone all'archetipo conservato nei ricordi.

Scrivo queste righe in una quieta notte umbra. È agosto, fa caldo, ma non il caldo colloso, tattile che collego alle mie estati d'infanzia; non il caldo che sale dal Tavoliere, quel fondo di bacinella che chiudono da un lato il Gargano (baluardo verticale, tsunami pietrificato), dall'altra i monti dell'Appennino Dauno, e in fondo il mare che però non chiude ma apre verso la sponda adriatica, sulla quale in tempi remoti sbarcarono gli Illiri e i compagni di Diomede.
La mia casa umbra è circondata da colline, verdi anche d'estate; niente a che fare con l'arsura gialla della Capitanata, i campi di grano che in questa stagione diventano neri di stoppie, gli oliveti che vibrano grigio-argentei contro il cielo bianco di afa.

E anche il suono di questa notte umbra è soffice, come ovattato dai tronchi di un bosco: un usignolo giù per la collina, il gatto dei vicini che fa la serenata, il grufolio lontano di un cinghiale, a volte la nota ondulante dell'allarme dalla palazzina di fronte, che ci fa sussultare nel sonno. Il buio è compatto, rotto solo da pochi lampioni o dalla finestra di un insonne.

La casa in Puglia era un palazzo primo-Novecento, dai muri spessi e dai soffitti altissimi. La mia camera si affacciava sul “giro esterno”, l'anello di vie che cinge il centro storico. Sotto c'erano una farmacia e una pizzeria, di fronte un bar. D'estate, fino a tardi, arrivavano le voci di chi sedeva fuori a prendere il fresco. Mi affacciavo al balcone e osservavo l'ampia curva che andava da una parte verso porta Foggia, dall'altra verso via Daunia.

Non era mai buio, né silenzioso. La via era illuminata tutta la notte e si sentiva il passo di chi rincasava, le risate delle comitive che tornavano dallo struscio, la voce di qualcuno che usciva dal bar un po' alticcio.

Potrei ancora ripercorrere mentalmente, con chiarezza assoluta, il gomitolo dei vicoli. Potrei disegnarli angolo per angolo, pietra per pietra, fino all'ultima scheggiatura del basalto e all'ultimo tarassaco cresciuto fra l'intonaco.

Eppure non torno. O, se torno, scappo. Perché se è vero che ognuno ha il suo Sud, il mio non è a Sud di nulla, se non di me stesso.




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