Gioco - Appartenenza -
Inquietudine
Scrivere di una propria
silloge di poesie è per me un esercizio di ricerca di un percorso nuovo
rispetto al semplice tornare indietro a ritroso.
Ogni volta è come aprirsi a
un nuovo discorso con il lettore, presentarsi e scoprirsi, ancora una volta,
incauto.
Aiuta la scelta delle tre
parole che non sono capisaldi volitivi ma liquida volatilità tra il bisogno di
definire e la consapevolezza di una transitorietà legata a quel pudore che sale
come nebbia dal mare a favorire un nascondimento. Ricorro quindi all’aiuto delle tre parole per tentare di parlare
della mia silloge Risacche con quanta più
sincera chiarezza mi è possibile.
Mi sono sempre detto che
scrivo per gioco.
Un gioco
bambino nello sguardo incantato degli ultimi cantastorie, nella narrazione popolare che giunge da un
tempo lontano e stimola l’immaginazione, così come il vedersi nella storia,
esserne parte e infine farne incontro e gioco .
Un gioco ludico quindi, tanto
immaginativo da potersi affidare alle storie e diventarne parte e interprete .
Cioè uno stare al gioco che
in poesia diventa un affidarsi al giogo della parola e del silenzio in attesa
dell’ispirazione.
E, in questa silloge, un
mettersi in gioco oltre il pudore, un affidarsi alla propria risacca in un mare
che parla con onde sempre più caotiche e imprevedibili .
Calati giunco
Flesso
giunco riflesso
a sentire a terra
passi,
tu che passi
pieno riflesso
di me flesso
che’ flettersi
è gioco a Bisanzio.
L’appartenenza è un
tema che, pur non essendo esplicitamente dichiarato, attraversa trasversalmente
la silloge con il mosaico delle mie appartenenze esistenziali e con quello
conseguente delle disappartenenze in un dinamico reciproco autorizzarsi alla
parola .
Non solo l’appartenenza a due
terre e due culture quelle del sud e del nord ma anche a due dimensioni quella
dei presupposti sani e quella dei miei pazienti psicotici ed infine a due
visioni del reale quella scientifica e quella artistica.
Anima mia
Peripatetica tra ulivi e cicuta
appiccicata ai muri dei folli
e nei chiostri dei flagellanti
abusata da pie labbra giulive
nei petti freddi degli infami,
verso molle di amori disillusi
dispersa tra morti in guerra
e neppure un fior di loto
a farti animo.
Codice binario
Siamo geroglifici
sul quaderno a righe
storte dall’umido
caduto alle palpebre
sul grembo incerto
senza madrasse,
candore tra tepori
di tagliole evanescenti
a caccia chiusa,
geroglifici ritagliati
senza sesso.
Disappartenenza
Parole lavate
disossate di senso
nelle sillabe dei silenzi
parlati sul limite sgretolato
dell’imbarazzo
come istantanee
senza data
diluite nel riti
delle appartenenze mancate.
Il
gioco e le appartenenze trovano il loro punto di crisi e quindi di riflessione
del noi e del sé interni nella percezione di una inquietudine di un
incompiuto che, socialmente, rasenta la malinconia del tempo non com-preso e,
intimamente, la percezione del limite tra l’esserci e il non essere vissuto .
Inquietudine
Impronte
Avremmo dovuto essere folli
e lasciare le nostre impronte
sul confine trasgredito prima
di specchiarci muti nel caos,
parlarci sul bordo del lecito
di numeri e gessi a campana
irridere alla sconvenienza di
ricordi svelati alla clausura.
Avremmo dovuto essere più folli
e lasciare spudorati le impronte.
Inquietudine
In questo imbrunire
un’inquietudine
di assenza antica,
scricchiolo di foglia
anonima,
si baratterebbe
per un nome
o solo una parola
adagiata sul fondo.
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