Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre. James Matthew Barrie
Il patto di sangue
Aveva le lentiggini. Un viso piccolo, ovale e tappezzato di puntini
rossicci qua e là, sugli zigomi asciutti e sul nasino appena accennato a punta
in su. E i capelli color grano maturo, né biondi e né rossi, ma un’armonia di
ambrati che all’epoca non avrei nemmeno saputo descrivere con esattezza. Quei
capelli avevano colpito tutte noi ragazzine del primo anno del convitto, forse
perché al suo arrivo il primo giorno li aveva acconciati in due trecce lunghe
fino al punto vita. “è una campagnola anche questa”, esclamò Sonia dal
davanzale della finestra. Forse perché
trascinava con sé due borsoni grandi ed era accompagnata da una sola donna
vestita in tailleur di raso verde sgargiante. La donna camminava a testa alta e
sicura davanti e la ragazza con le trecce, la seguiva a testa bassa. Aveva
l’aria stanca e trascurata, come del resto tutte noi presenti in quel luogo da
un paio di giorni.
La sistemarono nella stanza accanto alla mia. Più tardi,
poco prima dell’ora della mensa, scoprì che la campagnola si chiamava Merita,
veniva da un villaggio di montagna di Valona e si era iscritta al liceo
linguistico per la lingua tedesca. In quel convitto al cuore del quartiere
universitario, eravamo un paio di centinaia di ragazze di età compresa tra i 14
e i 18 anni, provenienti da tutte le località albanesi. Si faceva a gara per
integrarsi nella capitale e cercare di sopravvivere al meglio a quei 4-5 anni
di liceo in una scuola così esclusiva che soltanto alcune fortunate, potevano
frequentare dopo una severa selezione.
Merita non parlava molto, ma aveva un viso così espressivo
che era difficile non rivolgerle la parola, cosa che ricordo di aver fatto
subito la prima sera. Mi sentivo già più a mio agio, ormai ci dormivo da due
notti, avevo sistemato la mia roba, scelto il letto di sopra, prima dell’arrivo
delle altre tre compagne di stanza, finito le lacrime del distacco dalla mia
famiglia, specie da mia sorella. In poche parole, mi sentivo pronta a conoscere
altre persone e morivo dalla curiosità di parlare con Merita. Le sue lentiggini
mi ossessionavano, le avevo anche io, ma non erano così accese e non così tante,
le mie sembravano dei semini di papavero smarriti a caso.
Merita fu felice della mia presenza e dopo aver scambiato
poche parole sulle nostre origini e famiglie, si autoinvitò nella mia camera.
Le altre compagne non la degnarono di particolari attenzioni
e in cuor mio ne fui felice. Ci mettemmo sopra il letto a parlare e credo che
quella prima notte non riuscimmo a dormire. Merita non era così timida. Mi
raccontò di suo padre che faceva il pastore e stava a lungo fuori casa con le
greggi e di sua madre che lavorava all’ufficio anagrafe del distretto, e dei
suoi tre fratelli maggiori che erano immigrati in Grecia qualche anno fa, ma
non avendo documenti in regola, non erano più tornati a vedere la famiglia. La
donna in tailleur verde che avevo visto anche allungare dei soldi alla
sorvegliante prima di andare via (forse per avere un occhio in più per Merita),
era una zia che faceva la pediatra all’ospedale civile di Tirana. “Una donna
importante e benestante che è riuscita a sposare un medico chirurgo” sottolineò
Merita. Loro erano l’unico suo punto di appoggio a Tirana. Per il resto, anche
lei sarebbe tornata ogni due mesi a casa sua per vedere la famiglia.
Da quel primo pomeriggio del settembre del ’99 io e Merita
diventammo inseparabili. Ogni giorno dopo il pranzo, si presentava nella mia
camera, e si posizionava sopra il letto per fare i compiti insieme a me.
Aspettava in silenzio che io finissi quelli delle materie non in comune, e poi
si consultava volentieri su tutto il resto. Non amava molto studiare, ma
sognava di andare in Germania e lavorare in una grande azienda come interprete
o manager. Una sua cugina si era trasferita lì e aveva anche sposato un
tedesco. Ero felice di poter contribuire al sogno di Merita e insistevo fino a
notte fonda ad aiutarla nelle analisi grammaticali, nello studio di storia,
geografia e persino nei problemi di fisica e matematica. Lei amava disegnare e cantare.
Infatti, spesso mentre la aiutavo per i compiti si perdeva nelle melodie delle
hit del tempo, provava i miei pochi vestiti mettendo sottosopra l’angolo
dell’armadio, si affacciava alla finestra e fischiava ai passanti. Era davvero
difficile tenerla ferma e attirare la sua attenzione. Poi ogni tanto si
incupiva, di solito capitava il venerdì pomeriggio quando tutte le ragazze del
convitto si preparavano a rientrare nelle loro case nelle città vicine, oppure
andare a dormire in casa di parenti che abitavano a Tirana. La sorvegliante
faceva su e giù a chiamare i nomi di chi aveva l’autorizzazione per uscire.
Io andavo sempre via il venerdì, i miei numerosi parenti a
Tirana, facevano a gara per venire a prendermi, e ogni tanto, mi recavo alla
stazione centrale per raggiungere casa mia a Berat.
Quei venerdì per me erano colmi di gioia, ma anche di sensi
di colpa soprattutto per Merita che puntualmente si metteva a letto e copriva
la faccia con il lenzuolo, non rivolgendo la voce a nessuna. Dio sapeva quanto
tempo restava così. Poi, rifioriva la domenica pomeriggio, quando mi vedeva
arrivare dalla finestra, correva giù per le scale, mi aiutava con lo zaino o
con qualche busta che i miei parenti avevano preparato: di solito cibo e
vestiti puliti che Merita smontava e provava tutto non appena rientrate in
camera.
Col passare del tempo, Merita aveva attirato tante antipatie
tra le altre ragazze; chi diceva che se ne approfittava di tutti, che era una
“pezzente” sempre senza soldi, che era sempre alla ricerca delle attenzioni dei
ragazzi e cattiverie del genere. Più le altre dicevano questo, più aumentava in
me il senso di protezione e affetto nei suoi confronti.
Il giorno del mio quindicesimo compleanno, proprio per
dimostrarle la mia profonda lealtà, ho deciso di dichiararla mia sorella e lo
diventammo per davvero incoronando il tutto attraverso il rito popolare della
sorellanza: tagliando un po’ l’indice e mescolando il sangue dell’un l’altra,
che poi cercammo di bere, quella misera goccia rossa avrebbe immortalato per
sempre il nostro legame. Eravamo sorelle. Sorelle! Lo gridammo
contemporaneamente al buio dalla finestra del corridoio principale in modo da
farlo sentire a tutti, dentro e fuori quel triste palazzo grigio chiamato
Dormitorio della Scuola Superiore delle Lingue di Tirana. Un edificio colmo di
sogni adolescenziali e nel quale io avevo trovato un’altra sorella. Per Merita
sarei diventata l’unica, avendo lei solo dei fratelli maggiori. Da lì in poi
trascorrevo quasi tutto il tempo con lei ed era diventato così facile leggerci
nei pensieri. Io anticipavo ogni sua mossa e lei avvertiva subito quando
qualcosa non andava in me. Finì così il primo anno in quella scuola e ognuna tornò
a casa per l’estate.
Ricordo di non aver avuto la possibilità di sentirci nel
periodo estivo, i telefoni cellulari ci avrebbero raggiunto l’anno successivo,
ma fino a quel momento dell’estate 2000 il nostro mondo di adolescenti era
fatto di contatti diretti, di rare telefonate concesse dai genitori attraverso
i pochi telefoni fissi. L’estate finì in un baleno, come tutte le estati e
senza renderci conto ci ritrovammo nel cortile del Dormitorio puntuali a metà
settembre, più cresciute, con evidenti cambiamenti fisici visibili a tutti.
Merita arrivò in serata, questa volta con una sola valigia con le rotelle, la
solita zia rimase al cancello ferma per un po’. Mi sorprese non scorgere i
lunghi capelli color grano ai quali mi ero abituata, al loro posto portava un
caschetto netto, cortissimo e rasato sulla nuca e una frangia irregolare sulla
fronte. “Ora abbiamo entrambe i capelli corti” disse gioiosa mentre mi
abbracciava e scompigliava la mia chioma a caschetto regolare. Con il passare dei giorni notai altri
cambiamenti in Merita, la sua timidezza era meno evidente, aveva iniziato ad
usare più trucco negli occhi, kili di mascara e matita nei contorni, tanto da
far scomparire la sua piccola pupilla color nocciola, ma il cambiamento che mi
preoccupò di più era il fumo. Aveva iniziato a fumare. Lo faceva di nascosto
ovviamente, nel bagno delle ragazze o sul davanzale della finestra al buio. Mi
preoccupava anche il fatto che faceva fuori subito quei pochi soldi che aveva
da parte per le piccole esigenze e puntualmente la sua merenda giornaliera
erano diventate ormai le sigarette che maneggiava con una bravura da adulta,
riuscendo anche a far uscire cerchi di fumo dal naso.
Un giorno mi disse di essersi innamorata. “è bellissimo ed
ha anche un lavoro”. Rimasi di stucco,
com’era possibile che Merita avesse trovato un ragazzo al di fuori delle mura
del Convitto, già grande e con un lavoro? Si chiamava Denis e faceva il cameriere al Bar
vicino al parco, dove ogni tanto ci fermavamo dopo l’ora di educazione fisica
all’aperto o durante qualche ora di buca che si riusciva a scappare in massa
all’esterno della scuola. Merita disse che era stato lui che l’aveva approcciata,
non le aveva fatto pagare la bibita e le aveva persino offerto la sigaretta.
Aveva 20 anni e lavorava lì perché era il locale di suo zio. Da allora Merita
non faceva altro che parlare dei suoi grandi occhi blu e di come sarebbe stato bello
baciarlo e si chiedeva se sarebbe stata all’altezza per meritarsi un ragazzo
così bello e energico. Io non ci vedevo nulla di straordinario in questo
ragazzo, anzi, il suo sguardo pungente mi metteva a disagio, quelle poche volte
che accompagnavo Merita al locale a bere qualcosa per vederlo lavorare. Nonostante
non fossero ami usciti insieme, lei lo chiamava ormai il suo fidanzato e
fantasticava un futuro brillante. Man mano, svanì anche quella poca voglia di
studiare, l’unico chiodo fisso era poter combinare un appuntamento ufficiale
con Denis. Le dissi di avere pazienza che un modo l’avremmo trovato.
Ero diventata complice delle sue fantasie e ricordo che le
avevo fatto da palo anche durante il suo primo bacio davanti alla porta del
bagno del locale. Avevo fatto segno a Denis che si era precipitato e afferrata
subito, senza darle nemmeno il tempo di dire nulla. Era passato forse un
mesetto quando arrivò per me il turno di tornare a casa. Era una festa ogni
volta, di solito capitava l’ultimo weekend del mese e credo che quella volta
fosse anche nell’occasione della festa dell’Indipendenza. Merita mi accompagnò
alla stazione e mi salutò velocemente dicendo che quel fine settimana anche lei
sarebbe andata da sua zia. Ne fui sollevata, perché sapevo dello stato di
sconforto che le prendeva quando ero via.
Tornai ricaricata e piena di novità e cose buone la domenica
pomeriggio. Non appena aprì la porta della camera vidi Sonia preoccupata che mi
faceva segno di stare in silenzio. Appoggiai le borse e mi avvicinai verso il
mio letto dove c’era la sagoma di Merita coperta dal lenzuolo. Chiesi
spiegazione con gli occhi a Sonia ed Anita, entrambe mi fecero segno di andare
a parlare fuori e mi dissero che Merita era rientrata in uno stato disperato e
strano una mezz’oretta prima, non aveva rivolto la parola a nessuna e si era
messa sul mio letto in silenzio. Mi dissero che era stata via durante il fine
settimana, che era tornata senza zaino o buste, con vestiti sporchi, capelli
disordinati e lividi sul viso. Queste parole furono dei chiodi per le mie
orecchie e mi precipitai urlando dentro la stanza, alzai il lenzuolo
chiamandola, ma Merita non rispondeva, era diventata bianca e un rivolo di
schiuma le fuoriusciva dalla bocca. La scossi e presi a schiaffi, nulla! Mi
ricordai le parole di mia madre che diceva che in punto di morte fuoriescono
dei liquidi dal corpo umano e gridai ancor di più anche a Sonia e Anita, di
portarmi dell’acqua che le buttammo addosso. Merita diede appena un cenno di
vita, muovendo la testa, ma non riprendendo i sensi. Corsi in preda al panico a
cercare aiuto, ma nella guardiola vidi soltanto il sorvegliante del reparto
maschile e gli chiesi di chiamare un’ambulanza spiegando che una ragazza aveva
perso i sensi. L’ambulanza arrivò dopo qualche minuto e i sanitari dopo alcuni
tentativi per farla riprendere la caricarono in una barella. Li seguivo
ciecamente, si erano unite alla processione uno sciame di ragazze, ma i
sanitari fecero salire soltanto me e Klodiana, una ragazza del quarto. L’attesa
al Pronto Soccorso era infinita e io pensavo soltanto alla morte. Dopo qualche
ora, uscì una dottoressa a farci delle domande sull’accaduto e su che rapporti
eravamo con Merita. Le spiegammo che eravamo amiche e che la famiglia era
lontana. Sapevamo che era stata ospite degli zii il fine settimana. La
dottoressa disse che in realtà a Merita era successo qualcosa di terribile e
aveva ingoiato delle pillole. Era questo il motivo della perdita di conoscenza.
Le avevano fatto una lavanda gastrica ed era fuori pericolo, ma sul resto c’era
da indagare. Il resto da lì in poi fu per me una novità assoluta. Sentii come
in uno stato di trance delle parole per me non associate mai fino a quel
momento a nessun essere umano: imene, lacerazione, tracce biologiche, ematomi
diffusi, costrizione, stupro. La dottoressa disse che ci avrebbe rimandato nel
dormitorio quella notte e che ci sarebbe stato bisogno di approfondire il suo
stato con un ginecologo e di fare un test di gravidanza dopo alcuni giorni.
Chiesi se tutto ciò non si potesse fare subito, ma mi disse che era questione
di tempi e che sarebbe stato meglio di stare molto vicino a Merita in questi
giorni e non lasciarla mai sola.
Odiai all’istante Denis e i suoi occhi di ghiaccio, odiai
Merita per avermi mentito, odiai me stessa per non essere stata in grado di
capire cosa stesse combinando. Non proferì parola. Ho preso le carte che ci
consegnava la dottoressa e non so come, ma ci ritrovammo in un taxi che aveva
rimediato Klodiana. All’interno c’era anche il sorvegliante della sezione
maschile, in silenzio assoluto anche lui. Ci sedemmo tutte e tre dietro noi
ragazze, Merita in mezzo con la testa piegata sulla mia spalla. Notai dei
lividi e graffi sul collo. Arrivati al dormitorio a notte fonda, portammo
Merita nuovamente sul mio letto. Lei sorrise appena, dicendo grazie. Avevo
mille domande, ma non sapevo da dove cominciare, avevo paura di turbarla ancor
di più. Davanti alla porta c’erano altre ragazze che ci avevano aspettato
sveglie e ci mettemmo a parlare. C’era chi suggeriva che sicuramente Merita era
stata drogata, (era abbastanza comune ultimamente tra le sfortunate che ci
capitavano), chi che forse si era inventato tutto e per giustificare di essere
scappata dal Convitto e così via. Io non facevo altro che pensare al mattino
dopo, a cosa avrei fatto, al padre di Merita con il fucile da caccia, ai suoi
tre fratelli che sicuramente sapevano usare le armi come tutti gli albanesi, a
sua madre distrutta dalla preoccupazione e vergogna. Non riuscì a chiudere
occhio tra mille domande interrotte ogni tanto dalle parole lapidarie “imene”,
“lacerazione”, “tracce biologiche”, ematomi…Perché a Merita, perché, perché?
Non aveva nessuna intenzione di alzarsi la mattina, ma la
incoraggiai e l’aiutai a vestirsi, nel metterle la maglietta, notai altri segni
sul corpo, sembrava un campo bianco di boccioli viola. Mi tremavano le mani.
“Ho iniziato a ricordare ciò è successo” ha detto lei. L’ho interrotta
dicendole che era meglio se andavamo a scuola e cercare di uscire la penultima
ora per andare in caserma. Lei mi fisso terrorizzata, ma obbedì.
Le ore che susseguirono furono così irreali che pensavo di
essere dentro un incubo e stavo soltanto aspettando con pazienza il risveglio. Alle
12 ci ritrovammo all’uscita della scuola e ci indirizzammo mano nella mano verso
la via che portava alla caserma del quartiere. A un certo punto Merita si
irrigidì e mi stringeva la mano talmente forte a farmi male. Fissava una Mercedes
grigia che ci inseguiva e mormorava “è lui, è lui”! Guardai all’interno e notai
due uomini tra i 30 e i 40 anni. Uno con barba e occhiali e viso paffuto ci
guardava con insistenza. Ebbi un fremito di paura. “Forse è meglio che torniamo
indietro, faranno del male anche a te”, disse Merita in preda al panico. La
rassicurai implorandola di proseguire, ma lei stava inchiodata sul marciapiede.
In un’intersezione della strada intravidi un cartello di “Medici senza
frontiere” e istintivamente pensai che ci avrebbero aiutate. Era appena a 50
metri e riuscì a convincerla a seguirmi. Ci accolse una gentile signorina alla
quale dissi subito la fatidica frase “è stata violentata”. Lei ci accompagnò
dentro uno studio accogliente, dove un dottore che parlava francese e una sua assistente
iniziarono a farle delle domande. La sentì raccontare come si era recata a bere
qualcosa al locale di Denis e di come vi fosse trovata chiusa in una villa
sulle colline di Tirana per due giorni, senza mai uscire e di avere dei flash
in cui tre uomini, o forse quattro, compreso Denis le facevano di tutti i
colori. Lei raccontava e a me sembrava di vedere un film dell’orrore. Scoppiai
a piangere per la prima volta dopo quelle 24 ore. Gli operatori si presero cura
di entrambe. Visitarono Merita e ci consigliarono di ritornare per
intraprendere un percorso psicologico e di avvertire la famiglia. Non l’avevamo
ancora fatto! Ci dissero che ci avrebbero supportato nella denuncia. Merita
sembrava più tranquilla. Uscite da lì, andammo alla stazione della polizia, ma
il tutto fu abbastanza sbrigativo perché anche loro ci invitarono di ritornare
con un adulto. Feci il nome della zia di Merita e decidemmo di andare via. In
qualche modo mi sentivo più leggera, non ero più arrabbiata con Merita, ma sentivo
fino alle ossa la sua angoscia. Non appena entrammo al Convitto, la
sorvegliante chiamò Merita in disparte. Seppi dalle altre che era arrivata la
zia insieme al marito e che avevano parlato a lungo con la sorvegliante. Dopo
qualche minuto, li vidi salire tutti e in fretta entrarono nella stanza di
Merita. Lei si era trasformata in una statua di cera, non alzava più la testa e
iniziò a raccogliere i suoi libri e le sue robe in silenzio. Non capivo. La zia
mi diede uno sguardo di ghiaccio quando cercai di chiedere che stesse
succedendo. Le dissi che saremmo dovute ritornare dalla polizia per mettere a punto
la denuncia e lei rispose seccata “Quale denuncia? Per cosa? Non è successo
nulla. Merita ha perso i sensi per aver preso qualche paracetamolo in più e ora
sarà meglio finire la scuola a Valona”. Suo padre aveva comprato anche una casa
in città ultimante. Uno specchio si ruppe davanti ai miei occhi e i suoi
frantumi penetrarono le orecchie, le viscere, le vene, ovunque…
Merita aveva finito di impacchettare. Gli zii presero le
buste e lei fece appena in tempo a lasciarmi in mano la sua felpa rossa che mi
piaceva così tanto. Andò via senza salutare nessuno, a testa bassa. La sua
camminata sbilanciata fu l’ultima cosa che vidi.
“Entrate nelle camere”, gridò la sorvegliante. “Pausa
finita”.
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