domenica 6 agosto 2023

LA ROSA DI DICEMBRE - Ricordo di Griselda Doka

 

Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre. James Matthew Barrie

Il patto di sangue

Aveva le lentiggini. Un viso piccolo, ovale e tappezzato di puntini rossicci qua e là, sugli zigomi asciutti e sul nasino appena accennato a punta in su. E i capelli color grano maturo, né biondi e né rossi, ma un’armonia di ambrati che all’epoca non avrei nemmeno saputo descrivere con esattezza. Quei capelli avevano colpito tutte noi ragazzine del primo anno del convitto, forse perché al suo arrivo il primo giorno li aveva acconciati in due trecce lunghe fino al punto vita. “è una campagnola anche questa”, esclamò Sonia dal davanzale della finestra.  Forse perché trascinava con sé due borsoni grandi ed era accompagnata da una sola donna vestita in tailleur di raso verde sgargiante. La donna camminava a testa alta e sicura davanti e la ragazza con le trecce, la seguiva a testa bassa. Aveva l’aria stanca e trascurata, come del resto tutte noi presenti in quel luogo da un paio di giorni.

La sistemarono nella stanza accanto alla mia. Più tardi, poco prima dell’ora della mensa, scoprì che la campagnola si chiamava Merita, veniva da un villaggio di montagna di Valona e si era iscritta al liceo linguistico per la lingua tedesca. In quel convitto al cuore del quartiere universitario, eravamo un paio di centinaia di ragazze di età compresa tra i 14 e i 18 anni, provenienti da tutte le località albanesi. Si faceva a gara per integrarsi nella capitale e cercare di sopravvivere al meglio a quei 4-5 anni di liceo in una scuola così esclusiva che soltanto alcune fortunate, potevano frequentare dopo una severa selezione.

Merita non parlava molto, ma aveva un viso così espressivo che era difficile non rivolgerle la parola, cosa che ricordo di aver fatto subito la prima sera. Mi sentivo già più a mio agio, ormai ci dormivo da due notti, avevo sistemato la mia roba, scelto il letto di sopra, prima dell’arrivo delle altre tre compagne di stanza, finito le lacrime del distacco dalla mia famiglia, specie da mia sorella. In poche parole, mi sentivo pronta a conoscere altre persone e morivo dalla curiosità di parlare con Merita. Le sue lentiggini mi ossessionavano, le avevo anche io, ma non erano così accese e non così tante, le mie sembravano dei semini di papavero smarriti a caso.  

Merita fu felice della mia presenza e dopo aver scambiato poche parole sulle nostre origini e famiglie, si autoinvitò nella mia camera.

Le altre compagne non la degnarono di particolari attenzioni e in cuor mio ne fui felice. Ci mettemmo sopra il letto a parlare e credo che quella prima notte non riuscimmo a dormire. Merita non era così timida. Mi raccontò di suo padre che faceva il pastore e stava a lungo fuori casa con le greggi e di sua madre che lavorava all’ufficio anagrafe del distretto, e dei suoi tre fratelli maggiori che erano immigrati in Grecia qualche anno fa, ma non avendo documenti in regola, non erano più tornati a vedere la famiglia. La donna in tailleur verde che avevo visto anche allungare dei soldi alla sorvegliante prima di andare via (forse per avere un occhio in più per Merita), era una zia che faceva la pediatra all’ospedale civile di Tirana. “Una donna importante e benestante che è riuscita a sposare un medico chirurgo” sottolineò Merita. Loro erano l’unico suo punto di appoggio a Tirana. Per il resto, anche lei sarebbe tornata ogni due mesi a casa sua per vedere la famiglia.

Da quel primo pomeriggio del settembre del ’99 io e Merita diventammo inseparabili. Ogni giorno dopo il pranzo, si presentava nella mia camera, e si posizionava sopra il letto per fare i compiti insieme a me. Aspettava in silenzio che io finissi quelli delle materie non in comune, e poi si consultava volentieri su tutto il resto. Non amava molto studiare, ma sognava di andare in Germania e lavorare in una grande azienda come interprete o manager. Una sua cugina si era trasferita lì e aveva anche sposato un tedesco. Ero felice di poter contribuire al sogno di Merita e insistevo fino a notte fonda ad aiutarla nelle analisi grammaticali, nello studio di storia, geografia e persino nei problemi di fisica e matematica. Lei amava disegnare e cantare. Infatti, spesso mentre la aiutavo per i compiti si perdeva nelle melodie delle hit del tempo, provava i miei pochi vestiti mettendo sottosopra l’angolo dell’armadio, si affacciava alla finestra e fischiava ai passanti. Era davvero difficile tenerla ferma e attirare la sua attenzione. Poi ogni tanto si incupiva, di solito capitava il venerdì pomeriggio quando tutte le ragazze del convitto si preparavano a rientrare nelle loro case nelle città vicine, oppure andare a dormire in casa di parenti che abitavano a Tirana. La sorvegliante faceva su e giù a chiamare i nomi di chi aveva l’autorizzazione per uscire.

Io andavo sempre via il venerdì, i miei numerosi parenti a Tirana, facevano a gara per venire a prendermi, e ogni tanto, mi recavo alla stazione centrale per raggiungere casa mia a Berat.

Quei venerdì per me erano colmi di gioia, ma anche di sensi di colpa soprattutto per Merita che puntualmente si metteva a letto e copriva la faccia con il lenzuolo, non rivolgendo la voce a nessuna. Dio sapeva quanto tempo restava così. Poi, rifioriva la domenica pomeriggio, quando mi vedeva arrivare dalla finestra, correva giù per le scale, mi aiutava con lo zaino o con qualche busta che i miei parenti avevano preparato: di solito cibo e vestiti puliti che Merita smontava e provava tutto non appena rientrate in camera.

Col passare del tempo, Merita aveva attirato tante antipatie tra le altre ragazze; chi diceva che se ne approfittava di tutti, che era una “pezzente” sempre senza soldi, che era sempre alla ricerca delle attenzioni dei ragazzi e cattiverie del genere. Più le altre dicevano questo, più aumentava in me il senso di protezione e affetto nei suoi confronti.

Il giorno del mio quindicesimo compleanno, proprio per dimostrarle la mia profonda lealtà, ho deciso di dichiararla mia sorella e lo diventammo per davvero incoronando il tutto attraverso il rito popolare della sorellanza: tagliando un po’ l’indice e mescolando il sangue dell’un l’altra, che poi cercammo di bere, quella misera goccia rossa avrebbe immortalato per sempre il nostro legame. Eravamo sorelle. Sorelle! Lo gridammo contemporaneamente al buio dalla finestra del corridoio principale in modo da farlo sentire a tutti, dentro e fuori quel triste palazzo grigio chiamato Dormitorio della Scuola Superiore delle Lingue di Tirana. Un edificio colmo di sogni adolescenziali e nel quale io avevo trovato un’altra sorella. Per Merita sarei diventata l’unica, avendo lei solo dei fratelli maggiori. Da lì in poi trascorrevo quasi tutto il tempo con lei ed era diventato così facile leggerci nei pensieri. Io anticipavo ogni sua mossa e lei avvertiva subito quando qualcosa non andava in me. Finì così il primo anno in quella scuola e ognuna tornò a casa  per l’estate.

Ricordo di non aver avuto la possibilità di sentirci nel periodo estivo, i telefoni cellulari ci avrebbero raggiunto l’anno successivo, ma fino a quel momento dell’estate 2000 il nostro mondo di adolescenti era fatto di contatti diretti, di rare telefonate concesse dai genitori attraverso i pochi telefoni fissi. L’estate finì in un baleno, come tutte le estati e senza renderci conto ci ritrovammo nel cortile del Dormitorio puntuali a metà settembre, più cresciute, con evidenti cambiamenti fisici visibili a tutti. Merita arrivò in serata, questa volta con una sola valigia con le rotelle, la solita zia rimase al cancello ferma per un po’. Mi sorprese non scorgere i lunghi capelli color grano ai quali mi ero abituata, al loro posto portava un caschetto netto, cortissimo e rasato sulla nuca e una frangia irregolare sulla fronte. “Ora abbiamo entrambe i capelli corti” disse gioiosa mentre mi abbracciava e scompigliava la mia chioma a caschetto regolare.  Con il passare dei giorni notai altri cambiamenti in Merita, la sua timidezza era meno evidente, aveva iniziato ad usare più trucco negli occhi, kili di mascara e matita nei contorni, tanto da far scomparire la sua piccola pupilla color nocciola, ma il cambiamento che mi preoccupò di più era il fumo. Aveva iniziato a fumare. Lo faceva di nascosto ovviamente, nel bagno delle ragazze o sul davanzale della finestra al buio. Mi preoccupava anche il fatto che faceva fuori subito quei pochi soldi che aveva da parte per le piccole esigenze e puntualmente la sua merenda giornaliera erano diventate ormai le sigarette che maneggiava con una bravura da adulta, riuscendo anche a far uscire cerchi di fumo dal naso.

Un giorno mi disse di essersi innamorata. “è bellissimo ed ha anche un lavoro”.  Rimasi di stucco, com’era possibile che Merita avesse trovato un ragazzo al di fuori delle mura del Convitto, già grande e con un lavoro?  Si chiamava Denis e faceva il cameriere al Bar vicino al parco, dove ogni tanto ci fermavamo dopo l’ora di educazione fisica all’aperto o durante qualche ora di buca che si riusciva a scappare in massa all’esterno della scuola. Merita disse che era stato lui che l’aveva approcciata, non le aveva fatto pagare la bibita e le aveva persino offerto la sigaretta. Aveva 20 anni e lavorava lì perché era il locale di suo zio. Da allora Merita non faceva altro che parlare dei suoi grandi occhi blu e di come sarebbe stato bello baciarlo e si chiedeva se sarebbe stata all’altezza per meritarsi un ragazzo così bello e energico. Io non ci vedevo nulla di straordinario in questo ragazzo, anzi, il suo sguardo pungente mi metteva a disagio, quelle poche volte che accompagnavo Merita al locale a bere qualcosa per vederlo lavorare. Nonostante non fossero ami usciti insieme, lei lo chiamava ormai il suo fidanzato e fantasticava un futuro brillante. Man mano, svanì anche quella poca voglia di studiare, l’unico chiodo fisso era poter combinare un appuntamento ufficiale con Denis. Le dissi di avere pazienza che un modo l’avremmo trovato.

Ero diventata complice delle sue fantasie e ricordo che le avevo fatto da palo anche durante il suo primo bacio davanti alla porta del bagno del locale. Avevo fatto segno a Denis che si era precipitato e afferrata subito, senza darle nemmeno il tempo di dire nulla. Era passato forse un mesetto quando arrivò per me il turno di tornare a casa. Era una festa ogni volta, di solito capitava l’ultimo weekend del mese e credo che quella volta fosse anche nell’occasione della festa dell’Indipendenza. Merita mi accompagnò alla stazione e mi salutò velocemente dicendo che quel fine settimana anche lei sarebbe andata da sua zia. Ne fui sollevata, perché sapevo dello stato di sconforto che le prendeva quando ero via.

Tornai ricaricata e piena di novità e cose buone la domenica pomeriggio. Non appena aprì la porta della camera vidi Sonia preoccupata che mi faceva segno di stare in silenzio. Appoggiai le borse e mi avvicinai verso il mio letto dove c’era la sagoma di Merita coperta dal lenzuolo. Chiesi spiegazione con gli occhi a Sonia ed Anita, entrambe mi fecero segno di andare a parlare fuori e mi dissero che Merita era rientrata in uno stato disperato e strano una mezz’oretta prima, non aveva rivolto la parola a nessuna e si era messa sul mio letto in silenzio. Mi dissero che era stata via durante il fine settimana, che era tornata senza zaino o buste, con vestiti sporchi, capelli disordinati e lividi sul viso. Queste parole furono dei chiodi per le mie orecchie e mi precipitai urlando dentro la stanza, alzai il lenzuolo chiamandola, ma Merita non rispondeva, era diventata bianca e un rivolo di schiuma le fuoriusciva dalla bocca. La scossi e presi a schiaffi, nulla! Mi ricordai le parole di mia madre che diceva che in punto di morte fuoriescono dei liquidi dal corpo umano e gridai ancor di più anche a Sonia e Anita, di portarmi dell’acqua che le buttammo addosso. Merita diede appena un cenno di vita, muovendo la testa, ma non riprendendo i sensi. Corsi in preda al panico a cercare aiuto, ma nella guardiola vidi soltanto il sorvegliante del reparto maschile e gli chiesi di chiamare un’ambulanza spiegando che una ragazza aveva perso i sensi. L’ambulanza arrivò dopo qualche minuto e i sanitari dopo alcuni tentativi per farla riprendere la caricarono in una barella. Li seguivo ciecamente, si erano unite alla processione uno sciame di ragazze, ma i sanitari fecero salire soltanto me e Klodiana, una ragazza del quarto. L’attesa al Pronto Soccorso era infinita e io pensavo soltanto alla morte. Dopo qualche ora, uscì una dottoressa a farci delle domande sull’accaduto e su che rapporti eravamo con Merita. Le spiegammo che eravamo amiche e che la famiglia era lontana. Sapevamo che era stata ospite degli zii il fine settimana. La dottoressa disse che in realtà a Merita era successo qualcosa di terribile e aveva ingoiato delle pillole. Era questo il motivo della perdita di conoscenza. Le avevano fatto una lavanda gastrica ed era fuori pericolo, ma sul resto c’era da indagare. Il resto da lì in poi fu per me una novità assoluta. Sentii come in uno stato di trance delle parole per me non associate mai fino a quel momento a nessun essere umano: imene, lacerazione, tracce biologiche, ematomi diffusi, costrizione, stupro. La dottoressa disse che ci avrebbe rimandato nel dormitorio quella notte e che ci sarebbe stato bisogno di approfondire il suo stato con un ginecologo e di fare un test di gravidanza dopo alcuni giorni. Chiesi se tutto ciò non si potesse fare subito, ma mi disse che era questione di tempi e che sarebbe stato meglio di stare molto vicino a Merita in questi giorni e non lasciarla mai sola.

Odiai all’istante Denis e i suoi occhi di ghiaccio, odiai Merita per avermi mentito, odiai me stessa per non essere stata in grado di capire cosa stesse combinando. Non proferì parola. Ho preso le carte che ci consegnava la dottoressa e non so come, ma ci ritrovammo in un taxi che aveva rimediato Klodiana. All’interno c’era anche il sorvegliante della sezione maschile, in silenzio assoluto anche lui. Ci sedemmo tutte e tre dietro noi ragazze, Merita in mezzo con la testa piegata sulla mia spalla. Notai dei lividi e graffi sul collo. Arrivati al dormitorio a notte fonda, portammo Merita nuovamente sul mio letto. Lei sorrise appena, dicendo grazie. Avevo mille domande, ma non sapevo da dove cominciare, avevo paura di turbarla ancor di più. Davanti alla porta c’erano altre ragazze che ci avevano aspettato sveglie e ci mettemmo a parlare. C’era chi suggeriva che sicuramente Merita era stata drogata, (era abbastanza comune ultimamente tra le sfortunate che ci capitavano), chi che forse si era inventato tutto e per giustificare di essere scappata dal Convitto e così via. Io non facevo altro che pensare al mattino dopo, a cosa avrei fatto, al padre di Merita con il fucile da caccia, ai suoi tre fratelli che sicuramente sapevano usare le armi come tutti gli albanesi, a sua madre distrutta dalla preoccupazione e vergogna. Non riuscì a chiudere occhio tra mille domande interrotte ogni tanto dalle parole lapidarie “imene”, “lacerazione”, “tracce biologiche”, ematomi…Perché a Merita, perché, perché?

Non aveva nessuna intenzione di alzarsi la mattina, ma la incoraggiai e l’aiutai a vestirsi, nel metterle la maglietta, notai altri segni sul corpo, sembrava un campo bianco di boccioli viola. Mi tremavano le mani. “Ho iniziato a ricordare ciò è successo” ha detto lei. L’ho interrotta dicendole che era meglio se andavamo a scuola e cercare di uscire la penultima ora per andare in caserma. Lei mi fisso terrorizzata, ma obbedì.

Le ore che susseguirono furono così irreali che pensavo di essere dentro un incubo e stavo soltanto aspettando con pazienza il risveglio. Alle 12 ci ritrovammo all’uscita della scuola e ci indirizzammo mano nella mano verso la via che portava alla caserma del quartiere. A un certo punto Merita si irrigidì e mi stringeva la mano talmente forte a farmi male. Fissava una Mercedes grigia che ci inseguiva e mormorava “è lui, è lui”! Guardai all’interno e notai due uomini tra i 30 e i 40 anni. Uno con barba e occhiali e viso paffuto ci guardava con insistenza. Ebbi un fremito di paura. “Forse è meglio che torniamo indietro, faranno del male anche a te”, disse Merita in preda al panico. La rassicurai implorandola di proseguire, ma lei stava inchiodata sul marciapiede. In un’intersezione della strada intravidi un cartello di “Medici senza frontiere” e istintivamente pensai che ci avrebbero aiutate. Era appena a 50 metri e riuscì a convincerla a seguirmi. Ci accolse una gentile signorina alla quale dissi subito la fatidica frase “è stata violentata”. Lei ci accompagnò dentro uno studio accogliente, dove un dottore che parlava francese e una sua assistente iniziarono a farle delle domande. La sentì raccontare come si era recata a bere qualcosa al locale di Denis e di come vi fosse trovata chiusa in una villa sulle colline di Tirana per due giorni, senza mai uscire e di avere dei flash in cui tre uomini, o forse quattro, compreso Denis le facevano di tutti i colori. Lei raccontava e a me sembrava di vedere un film dell’orrore. Scoppiai a piangere per la prima volta dopo quelle 24 ore. Gli operatori si presero cura di entrambe. Visitarono Merita e ci consigliarono di ritornare per intraprendere un percorso psicologico e di avvertire la famiglia. Non l’avevamo ancora fatto! Ci dissero che ci avrebbero supportato nella denuncia. Merita sembrava più tranquilla. Uscite da lì, andammo alla stazione della polizia, ma il tutto fu abbastanza sbrigativo perché anche loro ci invitarono di ritornare con un adulto. Feci il nome della zia di Merita e decidemmo di andare via. In qualche modo mi sentivo più leggera, non ero più arrabbiata con Merita, ma sentivo fino alle ossa la sua angoscia. Non appena entrammo al Convitto, la sorvegliante chiamò Merita in disparte. Seppi dalle altre che era arrivata la zia insieme al marito e che avevano parlato a lungo con la sorvegliante. Dopo qualche minuto, li vidi salire tutti e in fretta entrarono nella stanza di Merita. Lei si era trasformata in una statua di cera, non alzava più la testa e iniziò a raccogliere i suoi libri e le sue robe in silenzio. Non capivo. La zia mi diede uno sguardo di ghiaccio quando cercai di chiedere che stesse succedendo. Le dissi che saremmo dovute ritornare dalla polizia per mettere a punto la denuncia e lei rispose seccata “Quale denuncia? Per cosa? Non è successo nulla. Merita ha perso i sensi per aver preso qualche paracetamolo in più e ora sarà meglio finire la scuola a Valona”. Suo padre aveva comprato anche una casa in città ultimante. Uno specchio si ruppe davanti ai miei occhi e i suoi frantumi penetrarono le orecchie, le viscere, le vene, ovunque…

Merita aveva finito di impacchettare. Gli zii presero le buste e lei fece appena in tempo a lasciarmi in mano la sua felpa rossa che mi piaceva così tanto. Andò via senza salutare nessuno, a testa bassa. La sua camminata sbilanciata fu l’ultima cosa che vidi.

“Entrate nelle camere”, gridò la sorvegliante. “Pausa finita”.  

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