Definire un libro, il proprio, attraverso tre parole è al tempo stesso un rocambolesco esercizio e una follia con un pizzico di narcisismo. Ci proverò.
Il libro è Nella fine, Puntoacapo, 2023. La prima parola non può che essere fine. È una parola che mi ossessione, per il suo significato potente e ineludibile e che nella sua onnicomprensività può essere ridotta a luogo comune, come nella frase ‘Tutto finisce’. Sentivo la necessità di darle una luce, almeno per me, diversa, comprenderne la forza illuminante. L’idea centrale del testo è forse quella che solo guardando alla fine in maniera radicale e irrimediabile avrei potuto esperire la vita e il mondo nella loro enigmatica esistenza e goderne a pieno.
Quest’ultimo aspetto rimanda alla
seconda parola su cui vorrei soffermarmi, la gioia, che è strettamente connessa alla fine e all’esperienza del
tempo. Ho sempre ritenuto che la beatitudine sia qualcosa che attenga al
divino, a ciò che è oltre il tempo, ai santi e agli dei, non ai mortali. Invece
la gioia attiene a noi mortali, è a
partire dalla fine e dal nulla, dal pericolo tremendo e inaggirabile al fondo
di ogni cosa che si può provare la gioia più intensa, quella di godere di un
bene inestimabile, amore, bellezza, pensiero. La gioia è cogliere qualcosa,
qualcuno, un frammento del tutto, nella sua irripetibile bellezza e goderne
fino in fondo per un attimo, sapendo del suo e del nostro irrimediabile svanire.
Una gioia che fa trenare i polsi perché nasce dal nulla come l’angoscia, di cui
è lo speculare opposto, entrambe alimentandosi di visioni e silenzio. Con
quest’ultimo, il silenzio, la poesia ha un rapporto privilegiato, ne proviene,
appunto, lo cerca, lo dice, senza mai
poterlo essere, ma solo sentendone l’eco. Infatti se noi prestiamo ascolto al
silenzio, anche in assenza di qualsiasi rumore, non lo troviamo, è sempre
oltre, si nasconde, tutto quello che possiamo percepire è un ronzio di fondo, a volte cupo a volte
leggero e quasi impercettibile. Ora posso chiarire a me stesso perché, quasi
senza rendermene conto, questa parola ritorna in alcuni mie versi anche a
distanza di anni. Sin da ragazzo questa cosa mi ha stupito e inquietato, in
fondo i miei versi, anche se dicono altro, sono sempre un tentativo di
sintonizzarsi con quel ronzio appena intuibile al fondo di ogni cosa, di ogni
evento, al fondo dell’universo e del suo spaventoso vuoto.
Francesco Filia
*
Cupo ronzio della fine. Abbiamo ceduto
a un graffio tra i roveti, al girotondo
infantile e sempre uguale, alla coda amputata
di una lucertola che fugge e si nasconde.
Scacciamo mosche e ricordi, la polpa rossovenata
della pesca. Un rito andato a male. Implacata
fame che nessun frutto sazia.
Siamo veri solo nei nostri gesti disumani.
(p.29)
*
E poi
non puoi vivere senza ogni volta morire.
Hai cercato parole facili per dire
quel che facile è, ma difficile da dire.
Semplice invece è lo sguardo del silenzio.
Siamo solo nella fine.
Mai saremo infinito. Siamo soli nella fine.
(p.36)
Eppure c’è un’antica e rassegnata gioia
nella tua risata aspra, sonora. Niente
importa: lo schiumare della birra nel bicchiere,
il muretto dipinto a calce su cui siamo seduti,
il buio del lungomare, il punteggiare remoto
delle stelle, il fuoco del vulcano alle nostre spalle,
l’arcano di ogni apparire. O forse tutto.
(p.53)
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