domenica 6 agosto 2023

SERRATI VERSI - Francesco Filia dialoga con Anna Maria Curci

 


Insorte è l’ultimo libro di poesie di Anna Maria Curci - poeta, traduttore, critico, -edito da Il Convivio , 2022. Si presenta come un libro denso, colto e ispirato al tempo stesso, accurato, con immagini e suggestioni potenti. Insorte è un libro in cui si mescolano, in un equilibrio raro, l’ispirazione poetica, la sapienza letteraria, una sottile ironia, la riflessione sulla nostre storia degli ultimi decenni, il confronto costante con la lingua e le sue sfumature, l’acume e la pazienza del traduttore  – ha da poco pubblicato il libro di traduzioni Anima azzurra, vagare oscuro, Marco Saya , 2023, una scelta di poesie di Georg Trakl –  tutto sublimato in una sintesi visionaria originale e profondamente coinvolgente. Insomma a parer mio è un libro bellissimo e sono felice di poterne parlare con Anna Maria.

         1)      Questo tuo ultimo libro di versi mi sembra incentrato su un confronto serratissimo con la tradizione letteraria, il mito greco – in particolare nella prima sezione Tragedia e idillio - ma anche  la letteratura dell’otto-novecento. Una relazione che ha una valenza poetica ed ermeneutica al tempo stesso. Cosa hai cercato nel mito classico e nella parola della tradizione? Cosa hai trovato?

Il mito e la tradizione poetica dell’Ottocento e del Novecento sono stati e sono compagni di viaggio, formidabili ‘srotolatori’ di mappe per gli itinerari a piedi e per le navigazioni lungo la costa e in mare aperto da che ho memoria di letture e di scritture. Insorte ne porta i segni visibili, intenzionalmente palesati, a partire dal titolo della prima sezione, Tragedia e idillio, un binomio insolito che devo a György Lukács, il quale coniò questa formula riferendosi alla scrittura di Theodor Storm. Si riferiva infatti alla coesistenza, alla convivenza di conflitti ‘assoluti’ e di immersioni nel paesaggio naturale della produzione narrativa e lirica di uno dei più significativi rappresentanti di quel movimento che la storia della letteratura di lingua tedesca definisce come “realismo poetico”.

Una delle possibili accezioni del termine “insorte”, vale a dire il riferimento a coloro che si sono “sollevate contro” è ispirata sicuramente al mito di Antigone e, ancor più, al personaggio tragico che, nella tradizione, dobbiamo a Sofocle, alla traduzione che della tragedia greca crea, in maniera pressoché irripetibile, Friedrich Hölderlin. La poesia è il gesto di Antigone, che nella chiusa del mio testo Creonte si manifesta così: «sotto la calce viva / voce smorzata / di chi raccolse spoglie».

La poesia rischia ogni bene, ogni sicurezza, non può fare altrimenti. Questo è ciò che ho trovato nel mito e nella tradizione. Non lesina, non risparmia, si dona completamente e sull’orlo dell’abisso sa che non può accettare niente di meno della verità, a qualsiasi costo, anche quello di uno strazio indicibile. E dunque non solo è Antigone, è Psyche che si è persa per Amore, è Ciane che si è disciolta in lacrime per non aver saputo trattenere Persefone rapita da Ade, è la parola di Jolanda Insana, la quale sapeva che al suo tormento (alla «rogna», per citare una sua affermazione) non c’è rimedio, è la dolicopoda («the long-legged fly») di W.B. Yeats, che insorge e si eleva sul silenzio, è tenerezza e grazia (Simone Weil) nella «memoria dolorosa» (Eschilo).

 2)      Vesti di luce il buio, Il verso finale di Trobairitz al pianto e del libro tutto, è una rivendicazione di poetica a cui è sottesa una riflessione personale ed esistenziale che attraversa l’intero libro. Come si connettono queste due dimensioni nello svolgersi dei testi?

Nella prossimità degli opposti, tanto sorprendente quanto inaspettata, tanto reale quanto raramente ammessa, si colloca la vicenda esistenziale degli umani. Mi soffermo brevemente sulla mia espressione “raramente ammessa”, giacché la modalità drasticamente riduttiva che, mi pare, viene imposta alla percezione comune tende a sminuire, se non addirittura a negare, uno dei poli. Il lutto viene banalizzato o, al contrario, spettacolarizzato, oppure, semplicemente, rimosso. Ma il buio, così come la notte negli Inni alla notte di Novalis, introduce a una forma di conoscenza, Per quanto dolorosa essa possa essere, la conoscenza propria di chi attraversa il buio e non lo rimuove porta con sé una tensione che è movimento, da punti di partenza e di arrivo che si spostano, sono dinamici e conducono a diramazioni, crocevia, strade maestre e sentieri secondari non sempre prevedibili. In questo slancio che si ripete e si moltiplica, interviene l’atto creativo della poesia, che risponde al pianto, mettendo insieme le parole in una composizione pronunciata, cantata e ascoltata, come avveniva con le trobairitz e i trovatori.

Al dialogo che si snoda tra «pianto e menestrella» ho donato un tratto che ricorre tra le immagini a me care, quando ho scelto il verbo “vestire”. Diversi anni fa, nella raccolta Inciampi e marcapiano, immaginavo la musa Talia come una sarta, che tagliava e accostava stoffe di natura, pregio e fogge differenti: siamo dinanzi a un altro dei possibili significati del titolo: “in (diverse) sorte”. La varietà si percepisce in maniera multisensoriale. Questo vale per le pezze di stoffa (uno dei primi luoghi del mio universo immaginativo è stata, nella prima infanzia, la bottega di stoffe di mio nonno paterno) così come per i versi, ma è il gesto poetico a conferire unitarietà e unicità alla struttura, alla tonalità, a ogni singolo dettaglio della «nota melodia» alla quale fa riferimento Trobairitz al pianto.

       3)      Altro aspetto centrale mi sembra quello con la storia degli ultimi decenni, soprattutto italiana, con la sua forza drammatica e spaesante che entra nella quotidianità, basti pensare ai testi della penultima sezione.  Quali sono i motivi di fondo che muovono la tua parola poetica verso la storia?

La nostra esistenza si svolge all’interno di coordinate che possiamo riunire sotto il concetto ampio di storia. Per essere più esplicita, menziono a questo proposito l’affermazione di un poeta, Heinz Czechowski, che all’epoca del bombardamento su Dresda, sua città natale, il 13 febbraio 1945, aveva dieci anni: «Non ho fatto la storia, è stata la storia a fare me […]. Da lì si dipartono tutti i fili, si aprono tutte le prospettive, in qualunque direzione io rivolga il mio sguardo». Ecco ancora un possibile significato del titolo della raccolta: ciò che accade “in sorte”.  A sua volta, la storia reca con sé un carico di conflitti, di enigmi, di “buio” dinanzi al quale la parola poetica si fa memoria, testimone, voce interrogante.

La poesia va incontro al mistero e, pur consapevole di poter risalire all’origine, non desiste dal tentativo. Nel suo consegnare la parola a chi leggerà e a chi ascolterà, la poesia assume la responsabilità del dire, del riportare alla luce ciò che era stato scaraventato nell’oblio, nel chiedersi, ad anni di distanza dalla tragedia di Ustica, alle falsificazioni e alle omissioni: «Cos’è la verità?»; ricordando don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993, si interroga: «Sì, ma verso dove?»: dando voce alle vittime di Piazza Fontana, si domanda: «Perché?».

Le parole non sono quelle della cronaca, restano quelle della poesia, che «scava, fruga, sprofonda» e, rievocando l’uccisione di Giorgiana Masi mentre manifestava pacificamente il 12 maggio 1977 a Roma, sa che «vorace s’acquatta l’orrore nei giorni».

 4)      Un aspetto che mi sempre ha colpito dei tuoi testi è l’oscillazione tra precisione assoluta del dettato e accuratezza millimetrica delle scelte linguistiche da un lato e l’utilizzo del valore polisemico e ambivalente, a volte ironico, delle parole, dall’altro, basti pensare al titolo del libro. Come lavori su questi aspetti? Quali effetti ti proponi sul testo? In che relazione sono con la tua attività di traduttrice?

Alla assunzione di responsabilità della parola poetica si affianca la consapevolezza che il sistema di segni di cui essa si serve per esprimersi, comunicare, creare, può diventare oggetto e soggetto di manipolazione, di menzogna, di annientamento. Due voci poetiche, entrambi nel secolo scorso, se pur a decenni di distanza, Hugo von Hofmannsthal e Ingeborg Bachmann, hanno messo in guardia ripetutamente da questo rischio fatale.  Ancora una volta entra in gioco la storia, stavolta la storia delle parole nel tempo, delle ‘parole del tempo’, di quelle strumentalizzate, di quelle compromesse, di quelle strombazzate, urlate nel «latrato» del potente di turno.

D’altro canto, la natura della parola poetica sta nella sua polisemia. Suo è il diritto di «dire cose oscure», sua è la prerogativa di aprire un ventaglio di significati per ogni termine, per ogni combinazione di termini nella costruzione del verso.

Come procedere allora? Con una precisione dettata dallo studio e dall’attenzione, che non può essere che amorevole, perché dettata da un profondo rispetto per gli strumenti dei quali la poesia si serve. Umani. Ironici e sublimi. “Passatori”, impenitenti travalicatori di confini.

Tradurre pone dinanzi alla irriducibilità della poesia, pur nel gioco di resa e di azzardo; è un’attività che dischiude, inoltre, la sua condizione: la poesia è ricca di spigoli, di anse, di approdi, di strapiombi, di associazioni multiple tra invenzione e interazione. L’ironia, ben lungi dall’essere una diminuzione, diventa un esercizio tanto arguto quanto devoto. La «voce smorzata» di Antigone resta «sommessa», ma «con l’incanto» e non disdegna affatto di far risuonare le voci, nel doppiaggio italiano, di una famosa scena comica di Stanlio e Ollio: «non di ritorni canta / né di imprese // solo di un comico / eterno “arrivedorci».

 

Nessun commento:

Posta un commento