venerdì 1 marzo 2024

SERRATI VERSI - Francesco Filia dialoga con Alessandro Baldacci

 


Il dio di Norimberga è il libro d’esordio in versi di Alessandro Baldacci – poeta,  docente universitario e critico letterario - edito da peQquod, 2023. Si presenta come un libro compatto e unitario nella forma e nell’ispirazione, in cui si intrecciano linee e nuclei tematici vari ma sempre intimamente connessi tra loro, che nelle varie sezioni (Il dio di NorimbergaUfoIl ballo delle baccantiAbbraccia le moscheOppure) trovano un respiro ampio e declinazioni diverse. Ne è testimonianza l’emergere, ad esempio, di una vena sapienziale che si tiene in equilibrio con un’altra narrativa, in cui si inseriscono spunti e tracce di discorsi provenienti dal mito, dalla fantascienza, dalla tragedia, dal cinema. Tutto ciò è espresso con una rigosa coerenza del dettato che rifiuta qualsiasi biografismo, ma osserva il mondo divenire parola con sguardo autoptico e cristallino.  A tal proposito ho posto ad Alessandro, che ringrazio per la disponibilità, alcune domande. 

1)      “Come una buona novella/ le bombe a Norimberga/ annunciano la primavera/ del dio che non atterra, / e che attenderà ancora/ per secoli, sin quando/ Kaspar brucerà il mondo/ cantando a squarciagola.”. Questi versi, come gran parte dei componimenti del libro, mi sono apparsi caratterizzati da un’inquietante ed enigmatica ierofania, che cade come una maledizione sull’abitare storico dell’uomo, in cui la parola poetica stessa sembra avere il compito di accogliere e dar forma a una voce tremenda e ambigua. Se è così come avviene questo passaggio? È possibile che avvenga?

 

Il libro guarda al reale tramite una surrealtà che dovrebbe fungere da tribunale, da lente ustoria, o semplicemente da finestra aperta sulla "illeggibilità del mondo". Confesso inoltre di non considerare il linguaggio poetico come la "casa dell'essere"; mi pare rappresentare piuttosto la "piazza dell'alieno”. Per questo il reale mi sembra di poterlo registrare, o sfiorare, solo, attraverso il tremare del mondo dentro una stanza, per dirla con Artaud, così come confidando nella bussola del panico. In un tale quadro il passaggio di cui tu mi chiedi può realizzarsi, forse, tramite “micro-apocalissi”, oppure come impossibilità del passaggio stesso, come tentativo, isterico e forzato, di forare una parete d'acciaio, una porta blindata, a colpi d'unghia o di fiato. La possibilità di motivare il rapporto fra parole e cose la intravedo unicamente all’ombra di una impotenza dionisiaca, o nel trionfo senza spettatori di un bambino che, come scrive Bertolucci, “si ferisce di continuo e guarisce / da solo”.

 

2)      “Oppure mentre conta/ il numero dei segni/ che cadono dal cielo/ o spuntano da terra” Nella sezione Oppure, ma anche nel resto del libro, mi sembra percepibile un sentimento della vita caratterizzato dall’inconciliabilità degli eventi che la attraversano, se non addirittura la travolgono. In altre parole, nei tuoi versi si aprono sentieri che, nel loro presentarsi, manifestano una dimensione di drammatica indecidibilità, di un aut-aut ultimativo. La tua parola poetica sembra che sia costretta a confrontarsi con questa cifra dell’esistenza. Se è così, in che modo avviene questo confronto?

 

Il confronto avviene restando nell'estraneo e nell'estraneità, rigettando ogni scorciatoia o maschera biografica, provando, per assurdo, a sganciarci dalle catene del nostro DNA, trasformando il privato in scoria, puntando a guardare il nostro riflesso, la nostra traccia di vita sul foglio come un astronomo alle prime armi osserva il movimento di pianeti sconosciuti. Non resta che provare a puntare verso gli esopianeti e contemporaneamente seguire come solo magistero il gesto ridicolo (e disperato) dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia. Il sogno utopico che mi accompagna forse è proprio quello di imparare a vivere e scrivere sotto la sabbia, mentre intorno a noi il fantasma di un’altra (ultima?) guerra mondiale si fa, di giorno in giorno, sempre più oscenamente concreto. Chissà, magari sotto la sabbia scompare anche l’incubo della morte, forse lì non arriverà mai il fungo (atomico?) della storia.  Mi permetto inoltre di aggiungere una ulteriore, per quanto bislacca, chiave di lettura in forma di domanda: e se il gesto di fuga dello struzzo rappresentasse in definitiva la più irriducibile forma di resistenza all’orrore, umilmente (quanto strenuamente) piantata nel sottosuolo?

 

3)      Nel libro sono presenti tematiche e soggetti diversi: il mito, la tragedia greca, la fantascienza, il cinema di Truffaut, Goldrake, Hansel e Gretel, la figura enigmatica di Kaspar Hauser –  che riappare in quasi tutto il libro, quasi a rappresentarne simbolicamente il senso unitario -, la morte di Dino Campana, accenni alla contemporaneità. Soggetti diversi, di varie tradizioni e ambiti culturali, ognuno dei quali dà vita a una struttura drammatica propria, che però al tempo stesso si presenta come parte necessaria del tutto. In base a quali principi e idee hai articolato questo rapporto?

 

Devo dire che il libro nasce nel segno di Kaspar Hauser ed in particolare del suo improvviso e sconvolgente arrivo a Norimberga, subito circondato da sguardi allarmati e spietati, pronti ad annientare o domare lo sconosciuto, ad impagliare il selvaggio, a metterlo alla catena, in gabbia e quindi a morte. Ogni società mi pare fondata sulla distruzione di un bambino, o meglio sulla violazione dell’alterità dell’infanzia da parte di una “pedagogia nera”, repressiva, che deve umiliare per creare piramidi, scuole, multinazionali, eserciti. A sua volta l'accerchiamento di Kaspar mi è sembrato riuscisse a parlare, da lontanissimo, al bambino di Vermicino, circondato dalla spietata spettacolarizzazione televisiva della sua morte nel giugno 1981. La “persecuzione” di Kaspar si confondeva, inoltre, nella mia testa e fra le pagine del libro, con quella del “ragazzo dell’Aveyron” chiamato Victor (a partire dal film che ne trasse Truffaut e dagli occhi del protagonista della pellicola, Jean-Pierre Cargol), chiedendo poi di dialogare con il tentativo di fuga dal manicomio di Campana, mentre a sua volta Goldrake si inseriva, quasi fantascientificamente, nelle sequenze fiabesco-grottesche della seconda sezione, a partire dall'idea di guardare all'infanzia come potenzialità aliena, e ai bambini stessi come degli ufo in fuga dal cielo e dalla terra. Questi accostamenti, per quanto selvaggi e allucinati, rivendicano rabbiosamente una loro precisa ragion d’essere, in definitiva politica (anarchica?): la denuncia di violenze e ingiustizie che fanno dell’umano quanto di più terribile sia emerso dal silenzio dell’universo.

 

4)      Le cinque sezioni che compongono il libro, pur nella loro diversa estensione, sono caratterizzate dalla presenza costante delle ottave, tipica struttura metrica del poema. Eppure nella compattezza e univocità del dettato, caratterizzato dal prevalere della forma chiusa, sono presenti continue variazioni stilistiche e formali. All’interno di questo impianto macrostrutturale molto definito, quali sono gli spazi di libertà espressiva che concedi al verso? Oppure è l’impianto complessivo che permette al verso di esprimere il senso di cui è portatore?

 

Per me l’unità di misura è sempre stata quella del libro. Negli anni ogni elemento che veniva a stratificarsi e a modificare un verso, a variare una immagine, a sostituire una parola, richiedeva di ripensare per intero il libro stesso, modificarne ogni fibra. Faccio fatica per questo a pensare a spazi di libertà e in termini di libertà nel caso del Dio di Norimberga. La scrittura per me ha senso solo come combinazione e incatenamento, procede, potenzialmente all’infinito, ma proprio perché nulla è veramente libero. Credo più nell’automatismo, direi quasi alla scrittura come pura algebra, piuttosto che alla libertà. La variazione serve solo a confermare la inesauribile verità dell’impossibile. Altra questione è quella della libertà integrale, quella che ci condanna a dare voce (da fuori) a chi veramente siamo, spingendoci a prendere la parola nell’orrore di una piazza, ma senza nessuna boria assertiva. Penso inoltre a una frase che mi ha guidato spesso nelle continue riscritture del Dio di Norimberga. Proviene da La trilogia della città di K. di Agota Kristof, in cui un personaggio dichiara, con una perentorietà inappuntabile, da Ecclesiaste: “ogni essere umano è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto, non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”. Il libro di poesia è sempre per me “quel libro unico”, ma, rispetto alla citazione di Kristof, più terrificante che non scriverlo, mi sembra il tradire quella unità, se vuoi ossessiva, esplosiva e implosiva allo stesso tempo, persa la quale sarebbe compromesso sia il libro che chi lo ha scritto. Meglio piuttosto non lasciare traccia.

   

Sotto la sabbia

 

I.

«Sasha, ora però la mamma

gioca con Kaspar, non la cercare;

togli la maschera e poi respira:

forse la sabbia porta la febbre,

come uno scherzo di carnevale

per farci fare la quarantena

in una stanza piena di mosche,

con le baccanti dietro la schiena.

 

II.

«Noi perderemo tutto

ma toccheremo il cielo»,

pensavano in pigiama,

correndo alle finestre,

seguendo sotto il letto

altre piste di sabbia,

così, Kaspar e Sasha,

in fuga dalla febbre.

 

 

III.

Quando lo toccano le baccanti

Kaspar saltella come una palla,

rincorre Sasha dentro la stanza,

stringe la fronte fino alla febbre,

oppure resta dietro la porta,

tiene la testa sotto la sabbia,

segue le mosche sul calendario

mentre la terra diventa rossa.

 

IV.

«Sasha», gridavano fuori,

«guarda le mosche negli occhi

di tutti, ora che l’aria

è rossa come la febbre

e gli ufo restano in cielo

mentre qui Kaspar, invece,

scivola sotto il divano

per non toccare nessuno».

 

V.

«Sasha, non guardare, fatti forza,

siamo tutte con te nella torre»,

gli dicevano in coro le mosche

che cadevano sulle pupille

come una palla dal quarto piano,

Kaspar invece cercava solo

le cavallette di Norimberga,

giocando a perdersi nella stanza.

 

VI.

Sasha, il tirso è nelle tasche

ma solo la terra ti resta

per mettere sotto la sabbia

la testa, sognando le mosche;

«salvezza», dicevano intanto

le stesse baccanti di sempre,

«è questo restare nel bosco

per scrivere lettere a Kaspar».

 

 

 

Alessandro Baldacci insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Varsavia. È fra i curatori dell’antologia Parola plurale (2005). Ha pubblicato due monografie su Amelia Rosselli (2006, 2007) e i volumi Andrea Zanzotto. La passione della poesia (2010), Controparole. Appunti per un’etica della letteratura (2010), Le vertigini dell’io. Ipotesi su Beckett, Bachmann e Manganelli (2011), La necessità del tragico (2014), Caproni. Un’inquietudine in versi (2016) e Milo De Angelis. Le voragini del lirico (2020). Il dio di Norimberga (2023) è il suo primo libro in versi.


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