Il dio di Norimberga è il libro d’esordio in versi di Alessandro Baldacci – poeta, docente universitario e critico letterario - edito da peQquod, 2023. Si presenta come un libro compatto e unitario nella forma e nell’ispirazione, in cui si intrecciano linee e nuclei tematici vari ma sempre intimamente connessi tra loro, che nelle varie sezioni (Il dio di Norimberga, Ufo, Il ballo delle baccanti, Abbraccia le mosche, Oppure) trovano un respiro ampio e declinazioni diverse. Ne è testimonianza l’emergere, ad esempio, di una vena sapienziale che si tiene in equilibrio con un’altra narrativa, in cui si inseriscono spunti e tracce di discorsi provenienti dal mito, dalla fantascienza, dalla tragedia, dal cinema. Tutto ciò è espresso con una rigosa coerenza del dettato che rifiuta qualsiasi biografismo, ma osserva il mondo divenire parola con sguardo autoptico e cristallino. A tal proposito ho posto ad Alessandro, che ringrazio per la disponibilità, alcune domande.
1)
“Come una buona novella/ le bombe a Norimberga/
annunciano la primavera/ del dio che non atterra, / e che attenderà ancora/ per
secoli, sin quando/ Kaspar brucerà il mondo/ cantando a squarciagola.”. Questi
versi, come gran parte dei componimenti del libro, mi sono apparsi
caratterizzati da un’inquietante ed enigmatica ierofania, che cade come una
maledizione sull’abitare storico dell’uomo, in cui la parola poetica stessa
sembra avere il compito di accogliere e dar forma a una voce tremenda e ambigua.
Se è così come avviene questo passaggio? È possibile che avvenga?
Il libro guarda al reale tramite una
surrealtà che dovrebbe fungere da tribunale, da lente ustoria, o semplicemente
da finestra aperta sulla "illeggibilità del mondo". Confesso inoltre
di non considerare il linguaggio poetico come la "casa dell'essere"; mi
pare rappresentare piuttosto la "piazza dell'alieno”. Per questo il reale
mi sembra di poterlo registrare, o sfiorare, solo, attraverso il tremare del
mondo dentro una stanza, per dirla con Artaud, così come confidando nella
bussola del panico. In un tale quadro il passaggio di cui tu mi chiedi può
realizzarsi, forse, tramite “micro-apocalissi”, oppure come impossibilità del
passaggio stesso, come tentativo, isterico e forzato, di forare una parete
d'acciaio, una porta blindata, a colpi d'unghia o di fiato. La possibilità di
motivare il rapporto fra parole e cose la intravedo unicamente all’ombra di una
impotenza dionisiaca, o nel trionfo senza spettatori di un bambino che, come
scrive Bertolucci, “si ferisce di continuo e guarisce / da solo”.
2)
“Oppure mentre conta/ il numero dei segni/ che
cadono dal cielo/ o spuntano da terra” Nella sezione Oppure, ma anche nel resto
del libro, mi sembra percepibile un sentimento della vita caratterizzato
dall’inconciliabilità degli eventi che la attraversano, se non addirittura la
travolgono. In altre parole, nei tuoi versi si aprono sentieri che, nel loro
presentarsi, manifestano una dimensione di drammatica indecidibilità, di un
aut-aut ultimativo. La tua parola poetica sembra che sia costretta a
confrontarsi con questa cifra dell’esistenza. Se è così, in che modo avviene
questo confronto?
Il
confronto avviene restando nell'estraneo e nell'estraneità, rigettando ogni
scorciatoia o maschera biografica, provando, per assurdo, a sganciarci dalle
catene del nostro DNA, trasformando il privato in scoria, puntando a guardare
il nostro riflesso, la nostra traccia di vita sul foglio come un astronomo alle
prime armi osserva il movimento di pianeti sconosciuti. Non resta che provare a
puntare verso gli esopianeti e contemporaneamente seguire come solo magistero il
gesto ridicolo (e disperato) dello struzzo che nasconde la testa sotto la
sabbia. Il sogno utopico che mi accompagna forse è proprio quello di imparare a
vivere e scrivere sotto la sabbia, mentre intorno a noi il fantasma di un’altra
(ultima?) guerra mondiale si fa, di giorno in giorno, sempre più oscenamente concreto.
Chissà, magari sotto la sabbia scompare anche l’incubo della morte, forse lì
non arriverà mai il fungo (atomico?) della storia. Mi permetto inoltre di aggiungere una
ulteriore, per quanto bislacca, chiave di lettura in forma di domanda: e se il
gesto di fuga dello struzzo rappresentasse in definitiva la più irriducibile
forma di resistenza all’orrore, umilmente (quanto strenuamente) piantata nel
sottosuolo?
3)
Nel libro sono presenti tematiche e soggetti
diversi: il mito, la tragedia greca, la fantascienza, il cinema di Truffaut, Goldrake,
Hansel e Gretel, la figura enigmatica di Kaspar Hauser – che riappare in quasi tutto il libro, quasi a
rappresentarne simbolicamente il senso unitario -, la morte di Dino Campana,
accenni alla contemporaneità. Soggetti diversi, di varie tradizioni e ambiti
culturali, ognuno dei quali dà vita a una struttura drammatica propria, che
però al tempo stesso si presenta come parte necessaria del tutto. In base a
quali principi e idee hai articolato questo rapporto?
Devo dire che il libro nasce nel segno di
Kaspar Hauser ed in particolare del suo improvviso e sconvolgente arrivo a
Norimberga, subito circondato da sguardi allarmati e spietati, pronti ad
annientare o domare lo sconosciuto, ad impagliare il selvaggio, a metterlo alla
catena, in gabbia e quindi a morte. Ogni società mi pare fondata sulla distruzione
di un bambino, o meglio sulla violazione dell’alterità dell’infanzia da parte
di una “pedagogia nera”, repressiva, che deve umiliare per creare piramidi,
scuole, multinazionali, eserciti. A sua volta l'accerchiamento di Kaspar mi è
sembrato riuscisse a parlare, da lontanissimo, al bambino di Vermicino,
circondato dalla spietata spettacolarizzazione televisiva della sua morte nel
giugno 1981. La “persecuzione” di Kaspar si confondeva, inoltre, nella mia
testa e fra le pagine del libro, con quella del “ragazzo dell’Aveyron” chiamato
Victor (a partire dal film che ne trasse Truffaut e dagli occhi del
protagonista della pellicola, Jean-Pierre Cargol), chiedendo poi di dialogare
con il tentativo di fuga dal manicomio di Campana, mentre a sua volta Goldrake
si inseriva, quasi fantascientificamente, nelle sequenze fiabesco-grottesche
della seconda sezione, a partire dall'idea di guardare all'infanzia come
potenzialità aliena, e ai bambini stessi come degli ufo in fuga dal cielo e
dalla terra. Questi accostamenti, per quanto selvaggi e allucinati, rivendicano
rabbiosamente una loro precisa ragion d’essere, in definitiva politica
(anarchica?): la denuncia di violenze e ingiustizie che fanno dell’umano quanto
di più terribile sia emerso dal silenzio dell’universo.
4)
Le cinque sezioni che compongono il libro, pur
nella loro diversa estensione, sono caratterizzate dalla presenza costante
delle ottave, tipica struttura metrica del poema. Eppure nella compattezza e
univocità del dettato, caratterizzato dal prevalere della forma chiusa, sono
presenti continue variazioni stilistiche e formali. All’interno di questo
impianto macrostrutturale molto definito, quali sono gli spazi di libertà
espressiva che concedi al verso? Oppure è l’impianto complessivo che permette
al verso di esprimere il senso di cui è portatore?
Per me l’unità
di misura è sempre stata quella del libro. Negli anni ogni elemento che veniva
a stratificarsi e a modificare un verso, a variare una immagine, a sostituire
una parola, richiedeva di ripensare per intero il libro stesso, modificarne ogni
fibra. Faccio fatica per questo a pensare a spazi di libertà e in termini di
libertà nel caso del Dio di Norimberga.
La scrittura per me ha senso solo come combinazione e incatenamento, procede,
potenzialmente all’infinito, ma proprio perché nulla è veramente libero. Credo
più nell’automatismo, direi quasi alla scrittura come pura algebra, piuttosto
che alla libertà. La variazione serve solo a confermare la inesauribile verità
dell’impossibile. Altra questione è quella della libertà integrale, quella che
ci condanna a dare voce (da fuori) a chi veramente siamo, spingendoci a
prendere la parola nell’orrore di una piazza, ma senza nessuna boria assertiva.
Penso inoltre a una frase che mi ha guidato spesso nelle continue riscritture
del Dio di Norimberga. Proviene da La trilogia della città di K. di Agota
Kristof, in cui un personaggio dichiara, con una perentorietà inappuntabile, da
Ecclesiaste: “ogni essere umano
è nato per scrivere un libro, e per nient'altro. Un libro geniale o un libro
mediocre, non importa, ma colui che non scriverà niente è un essere perduto,
non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”. Il libro di
poesia è sempre per me “quel libro unico”, ma, rispetto alla citazione di
Kristof, più terrificante che non scriverlo, mi sembra il tradire quella unità,
se vuoi ossessiva, esplosiva e implosiva
allo stesso tempo, persa la quale sarebbe compromesso sia il libro che chi lo
ha scritto. Meglio piuttosto non lasciare traccia.
Sotto la sabbia
I.
«Sasha, ora però la mamma
gioca con Kaspar, non la cercare;
togli la maschera e poi respira:
forse la sabbia porta la febbre,
come uno scherzo di carnevale
per farci fare la quarantena
in una stanza piena di mosche,
con le baccanti dietro la schiena.
II.
«Noi perderemo tutto
ma toccheremo il cielo»,
pensavano in pigiama,
correndo alle finestre,
seguendo sotto il letto
altre piste di sabbia,
così, Kaspar e Sasha,
in fuga dalla febbre.
III.
Quando lo toccano le baccanti
Kaspar saltella come una palla,
rincorre Sasha dentro la stanza,
stringe la fronte fino alla febbre,
oppure resta dietro la porta,
tiene la testa sotto la sabbia,
segue le mosche sul calendario
mentre la terra diventa rossa.
IV.
«Sasha», gridavano fuori,
«guarda le mosche negli occhi
di tutti, ora che l’aria
è rossa come la febbre
e gli ufo restano in cielo
mentre qui Kaspar, invece,
scivola sotto il divano
per non toccare nessuno».
V.
«Sasha, non guardare, fatti forza,
siamo tutte con te nella torre»,
gli dicevano in coro le mosche
che cadevano sulle pupille
come una palla dal quarto piano,
Kaspar invece cercava solo
le cavallette di Norimberga,
giocando a perdersi nella stanza.
VI.
Sasha, il tirso è nelle tasche
ma solo la terra ti resta
per mettere sotto la sabbia
la testa, sognando le mosche;
«salvezza», dicevano intanto
le stesse baccanti di sempre,
«è questo restare nel bosco
per scrivere lettere a Kaspar».
Alessandro Baldacci insegna Letteratura italiana contemporanea
presso l’Università di Varsavia. È fra i curatori dell’antologia Parola plurale (2005). Ha pubblicato due monografie su Amelia Rosselli
(2006, 2007) e i volumi Andrea Zanzotto. La passione della
poesia (2010), Controparole. Appunti per un’etica della letteratura (2010), Le vertigini dell’io. Ipotesi su Beckett, Bachmann e
Manganelli (2011), La necessità del tragico (2014), Caproni. Un’inquietudine in
versi (2016) e Milo De Angelis. Le voragini del lirico (2020).
Il dio di Norimberga (2023) è il suo
primo libro in versi.
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