sabato 12 aprile 2025

DIALETTO E VOCI AUTENTICHE : Nina Nasilli

 

 Questo mese ospitiamo con piacere un’artista poliedrica: Nina Nasilli. Poetessa in lingua e in dialetto, Nina è un’affermata pittrice nonché direttrice di una collana di poesia della casa editrice Book Editore e autrice teatrale. Nina ci propone quattro testi dalla deliziosa raccolta Tàsighe! scritto in dialetto rodigino-polesano e un testo tratto dal suo ultimo lavoro Cronotopo Blue. Ci introduce il suo lavoro un’illuminante nota critica di Francesco Piga. Buona lettura!

                                                                                           Alfredo Panetta

 

DEL DIALETTO, LA VOCE

di Francesco Piga

(estratto dalla nota critica a şighe!, Book Editore, 2017, II ediz. 2018)


Le parole dialettali, con le loro polivalenze, hanno la capacità, che manca al lessico tradizionale, di rendere pronunciabili entità e apparenze del mondo visibile, e soprattutto le percezioni di aspetti nascosti della propria interiorità, ricordi, sentimenti, emozioni. Il poeta per avvalersi di questa “lingua immaginifica”, per farne uno strumento unico, un linguaggio personale, deve recuperarla ed elaborarla. Nina Nasilli è già autrice di vari libri di liriche in italiano quando riascolta in ambito famigliare la lingua vernacolare, sentita parlare negli anni dell’infanzia; se ne appropria dunque in modo naturale, e la sottopone ad un accurato lavoro di ricerca filologica, giungendo tra l’altro ad una grafia più fedele possibile all’oralità, come attestano le sue annotazioni di lettura.

È in sintonia con gli altri poeti anche nel considerare il dialetto la lingua di un tempo astorico, prelogico, in cui sussiste ancora un rapporto tra l’essere, le cose e la parola, ormai smarrito per l’uomo moderno. E al tempo stesso nel suo uso del vernacolo c’è la difesa di una identità storica e individuale, di una tradizione culturale e di una coralità.

Con il dialetto della confidenza, con quelle parole vernacolari in cui la sonorità vivifica le cose e dà maggior consistenza al significato, l’Autrice racconta sottovoce, si pone e pone interrogativi esistenziali, domande che rimangono senza risposte, esterna frammenti di ricordi che riaffiorano fin dall’infanzia e di sensazioni lontane che tornano alla mente, delinea figure e ambienti di un tempo perduto. Attraverso il linguaggio vernacolare la realtà è travisata, assume aspetti surreali: l’erba e il fagiano si parlano e si guardano negli occhi, mentre le bucce di mela giocano con i pezzetti di arancia; e così i desideri, “e mi dèsovorìa un cusìn de buro / e graspi de ua / sόto ea testa”.

In questo stravolgimento i sentimenti accomunano il soggetto, le cose e le forme della natura, li uniscono in uno stesso destino: è disperata la rosa bianca che, nella sua difficile sopravvivenza fuori stagione, vorrebbe un po’ di attenzione ma trova soltanto indifferenza. E così il soggetto con una grande voglia di vivere, nel suo sentirsi inadeguato tra gli altri, comunque nel posto sbagliato, ha bisogno di affetto, mentre è sempre più difficile condividere le proprie emozioni. Anche la forma dialogica di alcuni testi, con la presenza di personaggi che fanno pensare ad una scena teatrale, mostra la volontà di ripristinare la perduta dualità, il necessario rapporto umano, di sentimenti e di pietas, di espressioni vitali e creative atte a dare un senso e a riempire perfino gli spazi. Questa forma dialogica rimanda agli interessi artistici che lAutrice ha per il teatro e alla scrittura di Parabola damore (Book Editore, 2012), un racconto in versi per il teatro, dove è postulata unintesa spirituale e culturale al di là del contingente e del reale, dove è la parola a creare la scena al di là della precarietà e della morte. Tratti della concezione damore, della parabola sentimentale di Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke, risuonano nei versi dialettali di Nasilli.

Infatti, la compresenza di elementi e contenuti che intercorre tra le varie raccolte di poesie e tra le liriche e le opere pittoriche, un tutt’uno che contraddistingue l’espressività artistica di Nina Nasilli, è da tener conto per comprendere meglio le sue composizioni dialettali. È necessario risalire e seguire dagli inizi un iter artistico su più piani che convergono e si fondono, amplificando significati e significanti, simboli e messaggi, permettendo una visione più profonda, essenziale. La sua arte poetica, in sintonia con quella pittorica, ci dice la contrastante disposizione d’animo tra la gioia di vivere e le inquietudini, la meraviglia di fronte al creato e l’apprensione per il mistero delle cose, il dolore della condizione umana. Le immagini letterarie e pittoriche e i riferimenti diretti a scrittori, pittori e musicisti ci portano ad una ben precisa dimensione culturale e contribuiscono a chiarire il complesso e poliedrico intersecarsi di espressioni e di motivi. È sufficiente citare alcuni autori tra quelli stranieri, Kafka e Pessoa, Eliot e Mandel’štam, Celan e Bernhard, per capire che siamo ai livelli più alti del pensiero e della scrittura.

Tutto ciò che le parole vernacolari esaltano in un alterato flusso di coscienza, i pensieri e i ricordi, i sentimenti e le cose scaturite da quei sentimenti, delinea un ritratto dell’Autrice che nell’evidenziare i valori del passato sottende scelte di vita, ferite interiori e una visione negativa di certi aspetti del mondo attuale. L’uso del dialetto, con cui amplia la propria espressività, le dà modo non soltanto di approfondire tematiche precedenti ma anche di andare oltre, nel dire della propria interiorità, altri pensieri, ulteriori riflessioni.

I versi in dialetto di Nasilli si situano in una dimensione letteraria dove vernacoli alterati si incastrano in maniera diversificata, rendendo particolarmente complessi lo stile di scrittura e i risultati poetici. Sono forme moderniste composite, come si direbbe meglio in architettura, costruzioni fatte di elementi diversi, proprie di un’idea linguistica tipica del postmoderno.(…)

 

 

E dunque, la lingua vernacolare che Nina Nasilli usa, (definendola “un nucleo rodigino-polesano con innesti patavini e talora anche chioggiotti”), così composita per la varietà di voci ascoltate da famigliari, amici, abitanti dei luoghi, rende nuova e originale questa sua voce poetica, ponendola, al tempo stesso, nel prezioso e particolare contesto letterario di una zona regionale molto ampia.

  

 Da TÀŞIGHE!

(collana “foglie e radici - Biblioteca del vernacolo”, Book Editore, 2017, II ed. 2018)

 

sto morbìn de vìvare

cosa’lga da èsare?

cosa xèo?

sto ciaréto ch’el ne piaşecusì tanto

ca no ne par mai ora da morire ...

 

questa voglia di vivere / cosa deve essere? / cos’è? / questo po’ di chiaro che ci piace così tanto / che non ci pare mai che sia ora di morire ...

  

 

 elsóe se scursa

 

elsóe se scursa

e’l se şlonga

come che’lghepiaşe

 

ma noàltri come xè che fémo

a starghe drio?

dime ti ...

sémosenpredriocórare

e biastemàre’ltenpo:

se invéseeovardàsimodrito

in t’elmuşo

no te pare che anca łù

elcominsiarìa a vardàrne

e a portàrrispèto?

 

  

il sole si accorcia

 

il sole si accorcia / e si allunga / come gli piace // ma noi come facciamo / a stargli dietro? / dimmi tu ... / stiamo sempre correndo / e bestemmiando contro il tempo: / se invece lo guardassimo dritto / nel muso / non ti pare che anche lui / comincerebbe a guardarci / e a portare rispetto?

  

 

taşàndotaşàndo ...

 

taşàndotaşàndo  ...

eodişévamé nona

e noàltrieocapìvino

che no xèra ea stesa roba

del tàşaretaşéndo

chequeoxèra par tuti

e tuti i dì

no ... taşàndoxèra par dirne de un taşére

che vién prima d’un miracoło

col déoschisà sua boca a far nacróşe

un taşére che no xèsoło dei làvari

ma un tàşare dea pansa, dejoci

e dee man:

par far parlare e vìsarecóchea pansa

ch’j oci e chee man

 

par calcòsa che riva piànpianéto

ma no te tepòiscóndare

o scanpàre:

eelxèbèo ma el fa anca un fià de paura ...

come s’ea fuse na lengua nova

ca ghetocasołoaedòne e ajòmani

inamorà

 

 

“taşàndotaşàndo” [“tacendo tacendo”] ...

 

“taşàndotaşàndo” [“tacendo tacendo”] ... / lo diceva mia nonna / e noi lo capivamo / che non era la stessa cosa / del tacere tacendo / che quello era per tutti / e tutti i giorni / no ... “taşàndo” era per dirci di un tacere / che vien prima di un miracolo / col dito schiacciato sulla bocca a fare una croce / un tacere che non è solo delle labbra / ma un tacere della pancia, degli occhi / e delle mani: / per far parlare le viscere con quella pancia / quegli occhi e quelle mani // per qualcosa che arriva pian pianino / ma non puoi nasconderti / o scappare: / ed è bello ma fa anche un po’ di paura ... / come se fosse una lingua nuova / che tocca solo alle donne e agli uomini / innamorati


 ghexènaànaradriocoàre

                                                               (a Eugenia e Marcello)

 

ghexènaànaradriocoàre

                                    dedrìo dee roşe

ga da èsarghe un putìn che pianže

                                    visìn al caşón

 

e mi dèsovorìa un cusìn de buro

e graspi de ua

            sóto ea testa

par scoltàrmèjo cosa che i se dişe

l’erba e’lfagiàn

có ch’i parla stréto tra de łori

e i se varda in t’j oci

tra napièra e st’altra

visìn al fòso

’ndóeche’eşguse de pómo e žoga

coi tochéti de narànsa

                        mèži marsi

prima da darghe da magnàre ai sórži

 

dime n’altra volta che te me vòibèn

stéa del mé cuore

che senò me par da morire

 

 

 c’è un’anatra che sta covando

c’è un’anatra che sta covando / dietro le rose / dev’esserci un bambino che piange / vicino al casone // e io adesso vorrei un cuscino di burro / e grappoli d’uva / sotto la testa / per ascoltare meglio cosa si dicono / l’erba e il fagiano / quando si parlano da vicino tra di loro / e si guardano negli occhi / tra una pietra e l’altra / vicino al fosso / dove le bucce di mela giocano / con i pezzetti di arancia / mezzi marci / prima di dar da mangiare ai topi // dimmi un’altra volta che mi vuoi bene / stella del mio cuore / che altrimenti mi pare di morire

 

 

 ea xèranaroşa bianca

(a mia madre, rosa candida)

 

ea xèranaroşa bianca

 

ea stava fòrastajón

in mèžo al canpo

incandìo dal sóe

 

s’ea luşe ea podésefruàre l’erba

e i fiori

ea sarìastàmasipà anca da quea

- tanta ghe ne xèra a mežodì

 

e invése, più ciara dea luna

de note, più bianca del late

che ciucia i putèi

chéaroşa ea se vardàvarente

inmatonìa

che no ghe fuse gnanca un can

a incòržarse de quanto ch’ea fuse bèa

e fresca

- ’ncoramasaindrìo

pa’l tramonto de tuto

 

fin e łàgremeghevegnéva

sui sólàvari

vèrti al vento

 

un can ...

un can de carne e osi ...

ma cusìsfinìo dal caldo

che no’lgagnancaalsà’lmuşo

 

ea, s’ea gavésepodéstosigàre

ea gavarìasigà

 

e ’łora, ’ncoragióse de mae:

łàgreme che e pareva nabróşema

- ma inbastardà

 

s’ea gavésepodésto pregare

ea gavarìamostràałaMadòna

e só man

j oci, e récie

par dirghe

“tòteste robe qua, par carità!

ma che mi no gàbia più da sentirlo

sto maedéto

siènsio dee vrespe e dejoşèi

e ca no gàbia da védare

sensaèsarvardà

ca no gàbia da scoltàre’ltenpo

del canpanìe ...

tòte i médéi

tòte i méoci

tòte e mérécie:

tócame ti, Madonina mia

còpame ...

chevìvaresènsa che nisùneosapia

xèpèžo che èsarstàligà e pistà”

 

ma ea roşano’apodéva pregare

 

no’aconoséva Dio

né i Santi

 

e no’agavéva man

e oci

e récie

 

ea savévasołoşbasàre ea testa ...

 

ea roşa ea gaşbasà ea testa

 

un oşeìn col pèto tuto róso

che’lxèra in sérca

de na roba bèa

par podérsegonfiàr tuto

e cantàr ea festa de chel dì

e’lghepasàva da visìn:

ma ea, tuta cucià ch’ea xèra

no’a se gaincòrto de łu

e del sómorbìn

e łu, sensagnancavédarla

sito sitoelxèxołà via ...

 

e s-ciao!

 

era una rosa bianca

era una rosa bianca // stava fuori stagione / in mezzo al campo / incendiato dal sole // se la luce potesse consumare l’erba / e i fiori / sarebbe stata rovinata anche da quella / - tanta ce n’era a mezzogiorno // e invece, più chiara della luna / di notte, più bianca del latte / che succhiano i bambini / quella rosa si guardava intorno / impietrita [intronata] / che non ci fosse neanche un cane / ad accorgersi di quanto fosse bella / e fresca / - ancora troppo indietro / per il tramonto di tutto // perfino le lacrime le venivano / sulle labbra / aperte al vento // un cane ... / un cane di carne e ossa ... / ma così sfinito dal caldo / che non ha neanche alzato il muso // lei, se avesse potuto gridare / avrebbe gridato // e allora, ancora gocce di male: / lacrime che sembravano una brina / ma bastarda // se avesse potuto pregare / avrebbe mostrato alla Madonna / le sue mani / gli occhi, le orecchie / per dirle / “prenditi queste cose qua, per carità! / ma che io non debba più sentirlo / questo maledetto / silenzio delle vespe e degli uccelli / e che non debba vedere / senza essere guardata / che non debba ascoltare il tempo / del campanile ... / prenditi le mie dita / prenditi i miei occhi / prenditi le mie orecchie: / toccami tu, Madonnina mia / uccidimi ... / che vivere senza che nessuno lo sappia / è peggio che essere stati legati e pestati” // ma la rosa non poteva pregare // non conosceva Dio / né i Santi // e non aveva mani / e occhi / e orecchie // sapeva solo abbassare la testa ... // la rosa ha abbassato la testa ... // un uccellino col petto tutto rosso / che era in cerca / di una cosa bella / per potersi gonfiare tutto / e cantare la festa di quel giorno / le passava vicino: / ma lei, tutta chinata che era / non si è accorta di lui / e della sua voglia / e lui, senza neanche vederla / zitto zitto è volato via // e addio!

 

  

Da CRONOTOPO BLUE

(collana “L’oro dei suoni”, Proget Edizioni, 2021)

 

se i forestieri i xè “piovésti”

ti, in t’elmé cuore, te xèrinevegà:

parché ea piova capita ch’ea capita

ma ea neve manco (ea capita, sì

                                                    ma manco)

- e po’ ea xè bianca

 

se i forestieri sono “piovuti” / tu, nel mio cuore, eri nevicato: / perché la pioggia capita che capiti / ma la neve meno (capita, sì / ma meno) / - e poi è bianca

 

   

Nina Nasilli, rodigina di nascita, vive a Padova, dove si è laureata in Lettere classiche e dove ha avviato il laboratorio-studio “Atelier Interno 7”.Determinante nel 1996 l’incontro intellettuale con Ottiero Ottieri. Ha ricevuto importanti riconoscimenti, tra cui il Premio ciceroniano “Città di Arpino” (2014). Dirige per Book Editore la Collana “foglie e radici - Biblioteca del vernacolo”. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni e cartelle d’arte. Tra i libri di poesia, per i tipi di Book Editore ha pubblicato TRA.DIS.CO trame di disprezzo coerente e licantropo (2010); Parabola d’amore (2012); al buio dei nodi anfratti (2016, Premio Internazionale “Marineo”), Tàşighe! in dialetto veneto, 2017, (Premio speciale del pubblico “Pontedilegno” 2018; Premio “San Vito al Tagliamento” 2018-19); Prossimità (2019); ha inoltre curato, tradotto dal latino e illustrato con disegni originali il volume Dittochaeon di Prudenzio (2018) e ha curato l’edizione di Gionmodine - Nel giorno natale di Tagore (2022).Per la prestigiosa collana di poesia “L’oro dei suoni” nel 2021 è uscita la sua raccolta Cronotopo blue (Proget Edizioni). È anche pittrice, e ha tenuto importanti mostre in Italia e all’estero.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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