A
mo’ di premessa
L’invito
a intervenire nel blog “Tra cima e fondo” con un editoriale intestato, in modo
a dir poco rarefatto e (in parte) anche provocatorio, a “3 punti di sospensione”
mi ha, in un primo momento, lasciato senza parole. Il tema è del tutto inusuale
perché…non è un tema. Non si sono ancora spenti nel mio cuore e nei miei
timpani gli echi delle luci, dei colori, delle voci che ho rubati al Festival “A
Sud di ogni Altrove” ed eccomi ancora chiamata in causa tenendo tra le mani 3
punti di sospensione. Ma come starvi, come si sta nella sospensione…? La strada
mi sembrava tutta in salita. A venirmi in aiuto è stato Google. I fatidici 3
punti indicano nella scrittura, come è lì specificato, il luogo in cui un
discorso è stato interrotto o lasciato in sospeso. La strada ora si allungava
in discesa. Ho pensato che ciò verso cui avrei fatto bene ad indirizzarmi
fossero dei luoghi problematici che tutti
in questo nostro oggi, dobbiamo fronteggiare. E così ne ho isolati 3: “il
corpo della donna”. “la guerra”, il “me stessa”. Ecco i miei punti di
sospensione; 3 momenti in cui la parola si fa incerta, pensosa, come sospesa e
che tuttavia lasciano sospettare una possibile continuità, una sotterranea
parentela. La loro scelta è assolutamente personale e non potrei giustificarla
in altro modo. Spero sia anche condivisibile. Dal punto di vista metodologico
ho adottato il sistema degli aforismi per realizzare l’idea di una scrittura
per frammenti e anche perché altrimenti… 3 libri non sarebbero bastati! Avverto
però che i 3 punti non stanno sullo stesso piano.: i primi i due insidiano una
qualche oggettività; con il terzo “me stessa” si scivola nel soggettivo, nel
surreale: insomma, nel personale.
IL CORPO DELLA DONNA
-C’è un reclamo che il
corpo rivolge alla donna: essere vissuto nella luce, senza ipocrisie; essere visto e
visto per essere detto. E’ in
questione una percezione
femminile del corpo
come proprio corpo.
-Il corpo della donna è stato
sempre illuminato dal versante maschile del desiderio, dove è materia
controversa: da questo versante, è fatto per svelarsi ritraendosi e per
nascondersi svelandosi (seduzione) al modo dei miti. Come
materia del desiderio e dello sguardo maschile il corpo femminile diviene
prigioniero del mito.
-In quanto donna subisco
violenza; sono morti-ficata ogni
volta che l’indipendenza e l’ identità del femminile che mi abita vengono in
tutto o in parte svilite nelle piazze del mondo, nel chiacchiericcio dei media,
nella frenesia dei mercati, negli uffici e nelle pareti di casa, sulle labbra
di un uomo e nel suo cuore.
-La violenza sulle donne
continua il mito, prolungandolo assai spesso nella direzione dell’idea che nel
corpo femminile vi sia qualcosa di oscuro, perverso, “portatore di peccato” di
cui ogni donna deve rispondere -al limite, con la sua stessa vita- per il fatto stesso di essere tale. In questo
senso la violenza sulle donne è radicata in un humus
culturale e sociale ben più sottile e profondo di quello che ha espressione
visibile nei cosiddetti “femminicidi”. Mortificare,
cioè fare morta la donna perché (e solo perché) donna, significa ritenerne paradossalmente la
fisicità luogo di “male” e quindi “colpa” (necessità di
espiazione).
-E’ completamente falsa l’idea che all’evoluzione
delle epoche storiche e all’avanzamento della scienza corrisponda un progresso
della cultura. Questa falsità è massimamente attestata dallo spettacolo cui oggi
assistiamo del prolificarsi degli spazi nel mondo (interi paesi e nazioni) in
cui la fisicità femminile deve essere castigata. Si pensi al moltiplicarsi di
momenti istituzionali volti a reprimerla e a “purificarla” (qualcosa tipo “ministero per la promozione della virtù”).
-Ritenere che il femminile in quanto tale sia (portatore di)
"male" significa addentrarsi in una metafisica sostanzialista del corpo e della
donna che nulla ha a che fare con
azioni, comportamenti, atteggiamenti tenuti dalla persona, anzi ne prescinde a
priori. L’essere donna é censurato come materia pornografica nell’idea seduttiva che se ne ha.
-I riti
di censura della fisicità femminile del desiderio (dal velo all’ infibulazione
etc…) non fanno che prolungare la forma maschile del suo mito. Viceversa, se
c’è una via al femminile per accedere al corpo è la via ancora accidentata (per
molti versi ignota) di una uscita dal mito; la via di un inedito “illuminismo”
basato sulla sua capacità di accoglienza.
-Sul
corpo delle donne la violenza si oggettiva, si fa palpabile, viene portata in
piena luce nel suo profilo di intollerabilità perché le donne sono fatte per “resistervi”.
Sulla loro carne la brutalità sbatte, colpisce, ferisce, uccide ma non
penetra. E’ l’immagine della palla
contro un muro.
-C’è nel
fisico femminile qualcosa come un ripudio costitutivo della violenza. Specifico
di quest’ultima è l’inclinazione a far leva sulla debolezza dell’altro, per
piegare il suo desiderio al proprio. C’è invece un conflitto senza
conciliazione possibile fra questa inclinazione e il corpo della donna: come culla della debolezza, accogliere l’altro non ha mai il senso
dell’inclusione, della riconduzione al se’, ma quello del lasciar essere e del
far crescere
GUERRA*
-Pensieri
di guerra, ma non con la guerra dentro
-La
guerra ci separa da noi stessi. E’ un vortice che risucchia, un crimine
iterativo nel senso che ti stritola e non finisce col trattato di pace. Sullo
sfondo c’è la dittatura o un fanatismo: è quasi sempre un pensiero
dittatoriale e/o fanatico quello che la genera.
-Una
logica la presiede ed è quella dell’amico/nemico; quella del NOI contro LORO.
In questa opposizione, a scomparire è il VOI; il ruolo dell’altro come
dirimpettaio e come interlocutore. Ciò che viene chiesto è di difendere i
valori in nome dei quali si va in guerra,
senza che abbia più senso porre la questione se siano da tutti
condivisibili e condivisi (o persino ignoti). Viceversa l’ipotesi che l’antagonista
possa essere nel vero è la condizione di base perché vi sia un interlocutore,
perché abbia senso impegnare la parola (piuttosto che un’arma) in una disputa.
-In
una opposizione dove il VOI è assente, L’IO
rimane di nessuna importanza nell’agone. Viene risucchiato dentro il NOI. All’uso della ragione
personale in ambito socio-politico si sostituisce l’uso della ragione
collettiva; cioè quella del gruppo che detiene il potere di costringere altri
ad imbracciare le armi: una ragione che non può essere posta in dubbio perché ne
va della causa comune. Ora è il NOI a dirigere, il punto di vista da adottare.
E il noi nella condizione di guerra, non si costituisce tanto nel rinvio all’idea
di un territorio comune di spazi, storia, valori, quanto nel rinvio all’esistenza
di un nemico irriducibile contro cui fare fronte, magari, per la difesa di
quell’idea.
-Nobilitato
dal fine (difendere l’idea) anche il crimine di guerra
(rapimenti, torture, omicidi, bombardamenti etc…) viene coperto dalle
istituzioni ed esaltato dal potere che le governa. Partecipare alle azioni di
annientamento del nemico, è virtù. Solo chi vi prende parte o tace sulla
loro portata di violenza delittuosa è un virtuoso e merita… stelline sul petto
e promozione.
-L’umanità
personale si dissolve. Chi si ricorda di avere un volto e non rinuncia a
perderla rifiutandosi al potere, viene perseguitato, additato come uno che non
ci sta, un nemico. Vive nella paura, quasi sempre muore. E se non muore?
-Si
ha paura per sé stessi e di sé stessi. In tutti i luoghi del tuo disagio inviti
la speranza a darti il braccio, poi le lasci un posto accanto alla disperazione
e le guardi discutere animatamente, quasi azzuffarsi, magari dinnanzi ad un
bicchiere di carta vuoto, asciutto, che le loro mani toccano e senza portarlo
alla bocca, stritolano.
-Il
dono di guerra estremo del noi all’io è un assurdo senso di colpa
per essere sopravvissuti che si evolve quasi sempre nel ritenersi responsabili
di una sorta di complicità involontaria alle azioni belliche. Il
sopravvissuto resta tormentato da incessanti interrogativi su se stesso cui è impossibile
rispondere: perché i miei (parenti, amici, compagni) sono morti e io sono
sopravvissuto? Sei complice perché ancora ci sei. Anche se non hai voluto quel
che è accaduto, vi hai preso parte perché e solo perché non sei morto. L’essere
in vita é colpa ed è l’ultima cosa di individuale che resta.
* Di queste considerazioni sono in gran parte debitrice a
René Char, Fogli D’Ipnos e a Herta Muller, In Trappola.
ME STESSA
-“La
fretta di te stesso” travolge; ci finisci dentro con tutte le scarpe, perché è un
mezzo di trasporto che, senza accorgertene, prima o poi ti ritrovi a utilizzare
-Sul nome che mi ospita si
affacciano curiosi molti nasi; appartengono ai miei tanti io: si, perché ogni io ha un naso diverso: per
questo il mio problema principale è il raffreddore
-In
questa nostra epoca il mio io non ha più nessuna connotazione
ontologica; é un flusso di percezioni, sensazioni, emozioni che mutano al
mutare di coloro che ne muovono i fili. Quasi solo una maschera momentanea.
-Mando
messaggi alle mie parole, in presa diretta, frasi spezzate: finisco col sapermi
come un “sembra”, uno
spazio deserto, controvento, un artigiano dell’effimero.
-Per
questo forse amo i semafori, le loro luci, la chiarezza del turno che danno
alla vita che non è loro; la suggestione di poter capire e distinguere quando è
il momento di passare o di fermarsi. Li amo tanto che perdòno loro persino il
giallo: mi ricordo di Dio, al giallo del semaforo.
-Non avete mai avuto difficoltà a configurare
certe sagome come persone e non come cani, gatti, coccodè etc..?
-La
mia è una
casa che combatte contro ognuna delle sue stanze. Nell’armadio poi la tuta si rifiuta alla gruccia e
scivola per terra ostinata come una vecchia abitudine deformata dal tempo.
-Credo che “discorso” non sia solo quello a parole, ma sun
interpellare qualcosa o qualcuno fornendo argomentazioni, prima di tutto a se
stessi. Il pregiudizio più grosso è la ragione che ci facciamo per gli errori
che commettiamo
-Guardo
le mie dita, le conto. Contarsi le dita è un modo di incontrarsi, di contarsi.
Ricordare che oltre la loro punta non puoi andare. Segnano il limite. Temo le
macchie rosse, specie quelle che non vedo ma che non vengono più via: non sai
mai quante persone hai ucciso morti-ficandole
-E’
lotta quotidiana abitare la profondità contro la
superficialità consumistica del mercato globale; non è per nulla detto che si
esca vincitori: mi sento in gamba ma proprio in gamba se riesco ad essere una sorta di segnale d‘allarme
a me stessa e agli altri. Come fare devo scoprirlo o trovarlo di volta in
volta. Non c’è mai un copyright per essere segnali d’allarme.
-Ringrazio la mia fragilità: nasco di giorno in giorno, di
ora in ora, di volta in volta; nasco nella precarietà, nella contingenza, nella
debolezza della parola, dei suoni, delle immagini. Come frecce scagliate nel
respiro del mondo e delle cose, inseguo desideri, bisogni, pensieri; quella
parte di umanità insomma che riesco ad agganciare; di cui riesco a farmi
carico. Credo quasi impossibile essere uomini a tempo pieno perché l’umanità non
è una professione. Nessuno ci paga per essere uomini. Ognuno di noi lo è in
misura maggiore o minore per così dire, occasionalmente, talvolta anche
involontariamente, spontaneamente: ed è la volta più bella.
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