Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre. James Matthew Barrie
BREVI RICORDI
C’era una volta una città unica. Tra l’acqua e il cielo scorreva la vita, il remo dava il ritmo alla gondola, il volo del gabbiano lo seguiva. Le corti erano colme di bambini, nell’aria si diffondeva la gioia dei giochi. Le finestre delle case si aprivano allo scambio di notizie quotidiane, per le calli qualcuno intonava ogni tanto una canzone.
Abitavo in una
calle stretta e lunga, all’ultimo piano di un’alta casa con giardino interno.
Il mio primo letto, dopo la guerra, fu un materasso sul pavimento in una
soffitta dai muri cavi, dentro ai quali sentivo correre i topi e di notte
temevo che mi rosicchiassero. Ero il giocattolo di tredici persone (genitori,
nonni, zii) che mi coccolavano. Mi mettevano sopra il tavolo come una bambola per
farmi ballare ed era la gioia di tutti mentre battendo le mani mi davano il
tempo.
Anni dopo passavo
ore in altana. Seduta sullo scalino, seguivo le formiche in passeggiata,
giocavo con i pupazzi e sentivo la gente che viveva, il rumore dei tacchi di
chi passava nella calle. Il pianoforte dell’inquilino accanto era compagno di
note che si univano al suono delle campane ed al tubare dei colombi.
Avevo molti amici. Il campo al pomeriggio era nostro ritrovo ed eravamo sempre di più. Una volta l’acqua era trasparente. Passavo ore seduta sulla riva a guardare affascinata quel mondo. C’erano diverse specie di pesci. I granchi risalivano fino a terra e mi camminavano attorno. I gatti stesi al sole, così pigri, così cittadini, aspettavano solo che qualcuno portasse loro da mangiare.
Venezia era viva.
Era quiete ed allegria, amore e baruffe, sogni ed illusioni. I bar sempre pieni
dove normalissime casalinghe, con una sola consumazione, passavano il
pomeriggio a chiacchierare e a lavorare a maglia. Così tenevano sotto controllo
i figli e tante volte intervenivano se facevano schiamazzi.
Ogni tanto arrivavano dei saltimbanchi con giochi di catene e mangia fuoco. Sbalordivano la piazza. E c’erano personaggi conosciuti da tutti e divenuti familiari, perché Venezia era come una grande famiglia: la matta che cantava, ballava e gridava; l’ubriacone che steso a terra voleva sempre morire e non moriva mai, ed altri ancora. Nelle corti le donne facevano il bucato a mano. Prendevano l’acqua dalle fontane e si spaccavano le reni, ma erano serene.
Per me era un’atmosfera da sogno, quasi una fiaba.
Ora il mio mondo è sparito, il silenzio si è riempito delle voci di un tempo. Seduta in poltrona, guardo fuori dalla finestra. Mi capita sempre più spesso che l’inerzia mi prenda e il corpo diventi di piombo, senza nessun desiderio. Mi sento estranea ai più, ora che posso passeggiare per le rive al sole che mi segue caldo tra le pietre. La mia ombra però ha ancora contorni di giovinezza. Su di essa il tempo non ha corroso, è la compagna inseparabile del mio passaggio nel nulla.
Laura Pierdicchi
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