venerdì 24 maggio 2024

A SUD DI OGNI ALTROVE - Patrizia Sardisco

Io-Isola, Io-Voce

 Voce finita e fissa, Io dice il nome di un’Isola: ma è un’isola-miraggio, soggetta a smarrimenti. Fenomeno, spettro di apparizioni: che risalgono, col vento di scirocco, lungo il crinale friabile del sonno, a ripiegare gli orli alla sua veste d’ombra, ai suoi riflessi, a rammendare nessi a vela, perché traghettino tutto intero il suo volto di maschera di pietra nel sole fino alla nuova notte, sussurrando il mio nome dentro il suo.

 Moltiplicato e mobile, Io è un punto nell’infinito piano divino: punto speculare alla immagine sua, punto sacro e sonoro del suo stesso verbo, punto sull’infinito piano di distese marine da cui infinite rotte passano, sono passate: passate e già perdute, nuotando di schiena lungo scie di sirene; passate e per fugaci secoli ritenute in ormeggio, in ginocchio come pregando a radicare a mani nude papiri e uova di canneti. Intrecciando, le dita nobili di maestranza e genio, giunchi di fiumi interni e schiume more in dorati panieri per primizie; o impastando lingue d’argilla e fuoco in anfore subacquee, ricetto o cattura per inchiostri e guizzi, tra i silenzi turbati di sale e sabbia, di relitti.

 Di ostinata ossidiana, l’Io dice l’Isola autoctona, identica a sé e immutabile: ma a queste latitudini di tempo, le trema in gola una voce a sé anteriore di babele. L’Io dice dell’Isola la perfetta autarchia: ma scricchiolano nella sua voce legni lontanissimi d’oltreterra e d’oltremare, e come un pianto sospiri di foreste sveve e fischi d’ascia su fianchi arabi di sambuco, nenie pregreche.

 L’Io è l’Isola: porziuncola di zolla che ha puntato gli alluci per sospingersi via, ribelle al tepore del legame, all’asfissia gelata del continente, al suo ventre collante di Pangea: scivolata via e di ogni riva aliena e per ciò stesso esposta, il petto alla tempesta, le testa alle correnti e alle incursioni, alle nominazioni che la battezzeranno ora approdo ora naufragio, ora deriva ora affondo tenero per bandiere e croci di salvezza.

 Io sono l’Isola, la mia: ma non più mia del mio corpo nel suo sfaldarsi e correre alla sottrazione, sfuggente e solo in prestito. Una, eppure satura di tutti gli altri numeri, terra dischiusa a scorrerie, mutevoli i confini per marea, per venti e sole, per ira di ciclopi: giammai per mano, non per opera d’uomo. Non ponti, se non per forza d’ala, per luce di pensiero. Sensibile alla carezza del deserto, al seme del maestrale, arresa e vittoriosa, lungo le genealogie non cancellate, non estirpate, non vinte: nutrite di sangue nuovo e flauti, di innesti su cortecce sovrapposte.

 Io è l’Isola che vive  e canta nel sedimento fluido di una lingua, mia come un mio osso, sterno e otolite di equilibrio: dialetto di acque salse, faglia sorgiva di tutte le distanze, di ogni sofferta-amata identità, di ogni solitudine. Eppure, non mera memoria: deboli le braccia non trattengono tutte le parole della storia, scomposta la materia scivola, non lieve il peso nelle cose affastellato, gli oggetti ignari rotolano premendo sui loro esili nomi. La terra che li accoglie ne risucchia il midollo dai legni teneri, ricama sulle lame il tempo afono come stelle di ruggine. Non mero archeologo, dunque, povero Io-lingua, misero erede di Idrisi: cartografo, disegna planisferi imperfetti per la voce, mappe del desiderio, consegnando al presente nulla se non per il presente rotte dall’arco breve, geografie di delizie ma in scala ridottissima, sussurrate, appena appena udibili.


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