1. Il tema principale della tua raccolta è appunto la morte - "Nella fine" Puntoacapo 2023 -,
infatti già il titolo lo dice. Mi ha colpito molto questa raccolta incentrata
su una tematica così ricorrente nella storia nella poesia di tutti i tempi. Ho
cercato le occorrenze per quanto riguarda la parola morte e fine e sono 12,
sono 11 invece, quelle sulla vita. C’è un verso: i vivi sono ombre dei
morti; In che rapporto stanno quindi vita e morte in questa raccolta?
C’è una sorta di equilibrio? Nel trattare questo tema, ti senti più vicino a
quale corrente letteraria: romanticismo, simbolismo, decadentismo o
postmodernismo?
Come hai giustamente osservato, nonostante l’idea centrale del
libro sia una meditazione poetica sulla ‘fine’ e quindi per metonimia sulla
‘morte’, vi è anche un continuo riferimento alla ‘vita’. Questi due opposti si
sono sempre presentati in maniera congiunta, quasi inestricabile, pur rimanendo
distinti, la gioia della vita e per la vita mi è sempre apparsa come
indivisibile dall’angoscia della morte, anziché eliminarsi a vicenda, l’una
intensifica l’altra. L’esistenza mi appare come un’oscillazione, senza
possibile rimedio o sintesi, tra questi due opposti. Nella lettura ho, forse,
sempre e solo cercato questo, attraversando i vari generi letterari, ma mi
rendo conto che aldilà delle diversità ideali e formali la cosa che ho cercato
è una parola che dica lo sgomento nei confronti del mondo e dell’esistenza
senza illudersi di porsi come rimedio. In fondo un dire tragico, nient’altro
che questo.
2. La raccolta è
intrisa di massime filosofiche, a volte anche lapidarie, come ad esempio:
“Sperare è stata la nostra maledizione” / “La prosa del mondo è in questi versi
che non hanno nulla da dire” /“Queste parole non sono altro che un referto” .
Qual è per te il ruolo o la funzione della parola poetica? È in qualche modo
rilevatrice, catartica o cosa?
La mia formazione è principalmente filosofica e, nonostante
nella letteratura poetica contemporanea, sia lirica che sperimentale, ci sia un
diffuso ostracismo e pregiudizio nei confronti del pensiero filosofico, questa
mia origine non l’ho mai rinnegata, anzi l’ho sempre alimentata con il
confronto costante con la parola poetica. In questo non facendo nulla di nuovo,
ma ripetendo un gesto originario della tradizione occidentale, il confronto
serrato, anche lo scontro, tra dire poetico e sapienza filosofica è il nucleo
essenziale del nostro stare la mondo. Certo nella nostra epoca post-tutto non
ci si può illudere di riproporlo in maniera ingenua, pena il rischio di cadere
in un’operazione antiquaria o peggio in una parvenza di sapere che si offre
come falso rimedio per i piccoli e grandi dolori dell’anima. Per tornare al
dettato dei miei versi quel che, rileggendomi, noto, è che spesso c’è un
cortocircuito tra osservazione del dettaglio irripetibile di un fenomeno e il
relativo stupore da un lato e apertura della parola a un dire che tende a
sillogizzare confrontandosi con la teoria dall’altro. Il dettato poetico è
questa tensione irrisolta e irrisolvibile tra queste due forze che procedono in
direzione opposte: l’attenzione verso la singolarità irripetibile e la tensione
verso l’universale,. Il verso è una corda tesa tra questi due estremi, sempre
sul punto di spezzarsi.
3. Un’altra parola che mi ha
colpito è la parola onomatopeica “ronzio” che assume connotazioni diverse. Ecco
qui i tre versi dove è presente: (Cupo ronzio della fine/ L’assedio delle
strade è un ronzio remoto/Lo sento arrivare da lontano, un ronzio remoto) Cos’è
questo ronzio, è l’indizio di un inizio o di una fine? Cosa rappresenta per
te? Ha a che fare forse con quello che, secondo me, è il gesto disperato
della verità, cioè nella nostra crudeltà e della nostra disumanità? “Siamo
veri solo nei nostri gesti disumani”.
Per risponderti parto da un’altra parola: il silenzio. La poesia ha un rapporto privilegiato col silenzio, ne proviene, appunto, lo cerca, lo dice, senza mai poterlo essere, ma solo sentendone l’eco. Infatti se noi prestiamo ascolto al silenzio, anche in assenza di qualsiasi rumore, non lo troviamo, è sempre oltre, si nasconde, si dà per assenza. Tutto quello che possiamo percepire è un ronzio di fondo, a volte cupo, a volte leggero e quasi impercettibile. Rispondendoti posso chiarire a me stesso perché, quasi senza rendermene conto, questa parola ritorna in alcuni mie versi, anche a distanza di anni. Sin da ragazzo questa cosa mi ha stupito e inquietato. In fondo i miei versi, anche se dicono altro, sono sempre un tentativo di sintonizzarsi con quel ronzio appena intuibile al fondo di ogni cosa, di ogni evento, al fondo dell’universo e del suo spaventoso vuoto, in cui l’uomo comprende che la sua umanità proviene da una dimensione enigmatica e dis-umana, indifferente alle nostre speranze, timori, gioie e anche a queste parole.
4. È infine una domanda sulla
tenerezza e l’amore. Poco presente in questa raccolta, appare come uno
spiraglio di luce che illumina il buio. “Tu sei l’antica nenia che
ritorna città buia e d’oro”, un incipit questo che ricorda Pavese. In
effetti è come se tu quando scrivi d’amore lo facessi quasi di sfuggita, per
caso, accenni appena, come se non ci credessi fino in fondo, in effetti,
scrivi: “Il giorno è stato la grande occasione per aderire alla nostra pelle
e a te e al suo amore e a un’impossibile salvezza.” . Ci spieghi un po’
questa posizione?
Dire l’amore, trasformarlo in parole mi è sempre risultato
difficile. Ritengo che richieda pudore, che la parola in questo caso più che
dire, debba custodire, anche quando ne ho parlato in maniera più ampia, come
nella sezione Dario di una Vacanza di
Parole per la resa, del 2017, mi sono
accorto di averlo fatto in maniera ellittica, anche quando ho affrontato il
desiderio dei corpi e l’eros. Penso che questo approccio attenga un po’ alla
mia educazione familiare, ma anche alla consapevolezza che l’amore, e tutti
suoi molteplici risvolti, sia una potenza travolgente e affrontarla senza le dovute
precauzioni, senza un filtro che ci protegga, sia rischioso. In questo libro,
come hai notato, appare per lampi fugaci, eppure è nella estrema consapevolezza
della fine che l’amore si può manifestare nella sua massima forza e bellezza. È
solo nella fine irrimediabile che può darsi come estrema gioia o estrema
tenerezza, anche solo per un attimo.
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