Ixòe de ària / Isole d’aria
di Donatella Nardin Fara Editore 2024
Postfazione di Alessandro Ramberti
e giudizio critico di Massimiliano Bardotti
Copertina e illustrazioni all’interno di Dante
Zamperini
Come sottolineo nella nota di lettura che
accompagna questa mia ultima pubblicazione, e che riporto in parte perché dà la
giusta misura di alcuni miei convincimenti, la poesia è per me anche, ma non
solo, quello spazio prediletto e necessitato in cui esercitare la libertà del
dire e del sentire e, in questa ottica, amo cimentarmi e percorrere sentieri
diversi, siano essi quelli più classici o quelli un po’più lontani dai canoni
occidentali.
Nutro dunque una particolare predilezione per
la forma poetica degli haiku, genere letterario che ho frequentato e
approfondito anche in una precedente pubblicazione.
La poesia haiku, infatti, nel suo addensarsi in nuclei semantici concisi, nel suo declinarsi in immagini e scene rapide ma intense, sollecitate e suggerite da interazioni sensoriali con la natura, offre la possibilità di aderire a una comunicazione interiore che non è solo mentale ed emotiva ma che risulta essere quella “folata di vento che ridesta l’assopito” secondo la definizione coniata dal grande poeta Matsuo Basho, uno dei maggiori autori giapponesi di haiku.
La silloge in oggetto è il frutto di questo mio peculiare interesse ma mi corre l’obbligo di precisare che, pur avendo tentato di aderire ai canoni sia stilistici che concettuali del genere quali, ad esempio, il costrutto canonico dei tre versi espressi in 17 more o sillabe, l’uso del kigo (riferimento stagionale) anche solo evocato e del kireji (pausa tra i versi che suggerisce sospensione, attesa o capovolgimento di senso) e aver similmente seguito la norma che invita a non porre il punto fermo alla fine del terzo verso per una possibile, auspicata espansione di senso dei versi nel lettore, mi sono presa alcune libertà come quella di usare il dialetto odierno delle mie isole treportine / veneziane per tentare di evidenziare e rimarcare, nella lingua degli affetti e delle radici, quanto siano intrecciati in modo inestricabile il tempo umano, il paesaggio e il linguaggio nel dare voce ad un canto solo apparentemente semplice e sommesso.
Sono consapevole che la scelta del vernacolo sia da considerare una cosa inusuale ma avendo percepito la necessità di rifugiarmi nel “non rumore” degli haiku, nel qui e ora di un istante che suggerisca ed evochi un sentire scabro, essenziale, ho realizzato che forse la lingua madre, mobilitando intime risorse preziose, avrebbe potuto conferire ai testi una diversa valenza e una maggiore pregnanza.
Da quanto brevemente enunciato, ecco stagliarsi nettamente tre nuclei tematici principali che innervano la raccolta e cioè Il Tempo, nelle sue varie istanze e declinazioni meditative, speculative così come memoriali, La Natura che accoglie e accompagna e L’Appartenenza rispetto ai luoghi in cui si è nati e vissuti e che, nell’afflato percettivo, hanno accolto e determinato una storia, un destino.
Il tempo, dunque, quello che fu e che ora giace sepolto chissà dove come quello declinato in istanti e in stagioni che, suggendo linfa vitale da una superiore armonia regolatrice degli elementi al di fuori e dentro di noi, dona una particolare caratura emotiva alla parola poetica recando con sé espressioni inattese che dicono la vita racchiusa in un orizzonte acquoreo proiettato al contempo in “isole d’aria” spalancate verso una diversa visione.
Quel tempo che, nel suo fare germinativo, di sé
informa e poi trasforma le cose consegnando per l’appunto alla memoria la pura
essenzialità.
Ixòe de aria -
destiràda su’ea acua
ixièra ea vita
Isole d’aria -
adagiata sull’acqua
la vita lieve
Acue ne’el fià -
viva nùa ne’i sènsi
ea me lagùna
Acque nel fiato -
viva nuota nei sensi
la mia laguna
Sòl de aprìl –
da ‘el gnènte calcossa
sveja i bùti
Sole di aprile -
dal nulla un qualcosa
sveglia i boccioli
La natura, come già accennato, che manifesta,
per squarci e velature, la bellezza del paesaggio veneziano intriso di
quell’energia vitale che sale dall’acqua e che, nella ricerca di segrete
rispondenze, ravviva tutti gli elementi sottolineandone anche le
contraddizioni.
Dai suoi ampi tratteggi, un occhio e un animo
attenti raccolgono suggestioni e sensazioni, anche tangibili, atte a
sottolineare il rapporto speciale esistente tra il visibile e l’invisibile.
Astri ceèsti -
el pòco vixìbie
de el’invisìbie
Astri celesti -
il poco visibile
dell’invisibile
Un bòsco de ònbre -
soitària ea nòte
ghe inpissa el canto
Un bosco d’ombre -
solitaria la notte
ne accende il canto
Crèpe su’i cànpi -
no sevàrda da’el jèo
ea sèma interà
Crepe sui campi -
non si cura del gelo
sepolto il seme
L’appartenenza, infine, viva e palpitante che
porta con sé accenti impensati, brevi agglomerati che, in sorvegliata fusione e
in feconda interrelazione, sugellano le ombre, le speranze, le assenze colte
nell’attimo in cui tutto sembra sospeso, come in attesa di una rivelazione,
prima dello svanire.
Aggiungo che i tre temi citati si raccordano e si intersecano nelle quattro sezioni in cui è suddivisa la raccolta e che fanno riferimento proprio alle stagioni.
Le sezioni, infine, sono precedute e arricchite
da quattro illustrazioni prodotte da Dante Zamperini, che ha curato anche la
copertina e che, come da lui stesso osservato, “sono immagini molto grafiche
che sembrano quasi una scrittura giapponese” mentre riferendosi ad esse,
Alessandro Ramberti nella postfazione scrive:
“sono
immagini che instaurano con le poesie un dialogo ricco di suggestioni
reciproche, permettendo alle parole di viaggiare e alle immagini di risuonare.”
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