martedì 21 gennaio 2025

A SUD DI OGNI ALTROVE - Lucia Triolo

        

Luisolo: un gusto guasto

                                                                        

 E’ afferrante e rapace, oltre che intensamente evocativo, intestare alcuni pensieri sul tema dell'autobiografia a “Luisolo"*, anche perchè si tratta anzitutto di un nome.

La rapacità evocativa del nome non credo abbia bisogno di spiegazioni, essa rimanda a qualcosa che ognuno di noi conosce più o meno bene nella misura in cui siamo tutti inginocchiati dinnanzi all' "io", anche quando (come negarlo) l'Io! (lancio e lascio l'esclamazione) è parola che cancella le proprie lettere perchè ne ignora il senso o forse ne ha paura. Siamo in genere ben lontani dal ritenere che la nostra vita sia “banale al punto da non meritare non dico di scriverla, ma neppure di ripensarvi a lungo, e non … più importante,…, di quella del primo che capita” (M.Yourcenar, Memorie di Adriano, in La Biblioteca di Repubblica p. 25).

Catapultarsi allora su di sé o lasciare che la nostra penna ci metta in disparte, ci ignori? Immagino il personaggio, Luisolo in dialogo muto con se stesso, mentre se lo chiede:

 

-sei riuscito a staccarti da te stesso

o sei rimasto attaccato?

-    ?

-    hai preso trafelato le distanze da te o no?

- ?

- cosa volevi, cosa speravi dalle traveggole

di un io malinformato?

- ?

 Il dialogo non può concludere. Che farci: Luisolo si lascia sempre adescare dalla “curiosità di quelle zone intermedie dove l’anima e la carne si confondono”(M. Yourcenar, op. cit., p.154). Tendenzialmente è un guardone (cfr. C. Bene, Ritratto di signora, in Opere, La nave di Teseo, p. 244) il suo è un gusto guasto. Pur di intascare una ciocca dellio non si fa pregare: ed è autobiografia!

  

La scintilla indisciplinata

 Si condivida o meno la fiducia dichiarata da Rousseau, all’inizio delle sue Confessioni, nella possibilità di mostrare se stessi ai propri simili in tutta la verità della propria natura, quando si mette l’ “io” nero su bianco, come nella scrittura autobiografica, lo specchio che lo riflette restituisce al lettore uno sterminato caleidoscopio di immagini. Non cercherò di giustificare in alcun modo le considerazioni che seguono sull’autobiografia (mi riferisco, ovviamente, all’autobiografia che coinvolge l’autore in carne e ossa, non ai racconti di finzione scritti in chiave autobiografica, dove il racconto della propria storia non è che una forma espressiva, un artificio letterario). Non desidero infatti affrontare, né tanto meno sfondare, i muri portanti della scrittura autobiografica e dei suoi possibili risvolti.

Il fatto è che, leggendo qui e là, a spizzichi e bocconi su questo interessantissimo tema, mi è sembrato di cogliere un colore, di catturare una scintilla che si sprigiona indisciplinata dal modo in cui due autori a me molto cari ed entrambi meridionali tratteggiano i caratteri della propria arte e a partire da essa, del loro “sé”. Gli autori cui mi riferisco sono Luigi Pirandello e Carmelo Bene: da essi sprigiona una scintilla indisciplinata, che disordina le consuete aspettative sul discorso autobiografico.
Dicevo: "una scintilla indisciplinata" ed infatti nutro la convinzione che per entrambi, l’ autoriflessione scritta sull'autore del proprio operato artistico, cioè su se stessi, sia qualcosa di im-pertinente, nel senso proprio di non pertinente al loro discorso artistico-biografico, perchè in essa non ruotano inquadrature che come sgabelli fedeli possano fare da supporto al soggetto che scrive. Quasi si trattasse di un’indiscrezione nei propri confronti, per questi autori l’autobiografia può sortire esiti imprevedibili che sfuggono di mano alla regia dell’autore, perchè in fin dei conti risulta strumento inadatto ad adempiere i compiti cui dovrebbe assolvere. Se infatti questa forma di scrittura svolge, in termini generalissimi, il compito di mettere in piazza informazioni su chi scrive (qualunque ne siano le ragioni: psicologiche, divulgative, economiche, pubblicitarie), nell’ ottica di Luigi Pirandello e Carmelo Bene sembra che questo tipo di riflessione sia incapace di fare goal nella porta dell’ “io”. Essi non accampano diritti a firmare discorsi sul personaggio/compagno di vita cui ci riferiamo con l’espressione “io” (ammesso che sia possibile farne un’unità significante). Quasi che nell’autobiografia, l’ “io” dell’autore si sottraesse all’ “essere detto”.

 

Pirandello e l’inganno continuo. La macchia dell’ “io”.

 

Sono nato in Sicilia, e precisamente in una campagna presso Girgenti”, così Pirandello inizia la pagina della sua Lettera Autobiografica e, dopo un succinto resoconto della propria giornata tipo, sorprendentemente continua:

 “Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.

Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosí è”.

(L. Pirandello, Lettera autobiografica di incerta data (1912/13). E’indirizzata a Filippo Súrico, allora direttore del periodico romano “Le lettere” e fu ivi pubblicata nel numero del 15/10/24. Poi ripubblicata nello stesso periodico “Le lettere”: serie VII, n. 1, 28 febbraio 1938).

 Forse è precisamente questa “necessità di ingannare di continuo noi stessi” a dettare i canoni di ogni racconto del sé. L’ “io” che ne viene fuori è per un verso un “io ingannato” e per altro verso un “io ingannatore”, creatore di una realtà a tratti “vana ed illusoria”. E non salva, ma anzi appesantisce il fatto che si tratti di una “spontanea creazione”. Il soggetto che scrive (l”io narrante”) inganna l’oggetto di cui scrive (l”io narrato”) anche sull’oggetto di cui scrive, creando un circolo vizioso in cui piomba con piedi e scarpe, sfuggendo all’alea del giudizio vero/falso.

Ciò cui Pirandello ci mette dinnanzi (l’inganno inevitabile che genera la parola su se stessi) è una sorta di conclusione, ribadita in modo assai incisivo dal “Così è”. Si badi bene, una conclusione per un’opera che non ha mai portato avanti, per un’opera che manca. dal momento che la sua lettera autobiografica non è più lunga di due paginette.

Creando un paradosso, egli affronta l’inganno cui, come avverte, siamo esposti. Una vita che si lascia raccogliere in una storia, diventa necessariamente una vita che ha un senso. E se la vita che si sta raccontando è la mia, allora, che lo voglia o no, qualunque cosa io ne racconti, comunque mi racconta. Ecco che la mia stessa esistenza si riempie di senso. Di là da ogni diaspora, da ogni devastazione, l'identità del soggetto si ricostituisce, e riprende forma la figura dell’io. Ma proprio qui, sembra avvertirci Pirandello, sto nell’inganno.

Per quanto possa apparire singolare (e certamente lo è), egli non fa altro che riproporre in poche righe, estremamente alte e suggestive, un’insidia di cui l’oggi letterario è perfettamente consapevole (a partire almeno dalla fine degli anni 60 del secolo scorso e dal vivace dibattito tra R.Barthes e M.Foucault a proposito del principio di autorità autoriale). Dovunque si esprima, la prima persona singolare matura la tendenza al dominio, alla ricerca di ciò che lo connota (identità) e al trasferimento nell'oggetto osservato delle caratteristiche che esso stesso si attribuisce: una sorta, potrei dire, di macchia dell’ io che scolora tutto il resto. Avviene in campo letterario qualcosa di analogo a ciò che avviene in campo scientifico: come in quest’ultimo l’osservazione, la presenza dell’osservatore e l’atto stesso dell’osservare modificano in qualche modo il fenomeno osservato,  così la presenza autoriale non solo tradisce anche involontariamente quella sorta di autenticità del significato di cui la si vorrebbe garante, ma finisce anche con l'alterare il Self che la costituisce. In questi termini, la conoscenza, l’osservazione in base all’ “io” deforma anche l’ “io” che vuole conoscere. E scatta il meccanismo dell’inganno di cui nella Lettera.

  

Carmelo Bene e “la fine del teatrino conflittuale dell’ io”**

 Le disavventure dell’autobiografia che in Pirandello risultano una conclusione, lanciata come una freccia appuntita e avvelenata dentro la pagina autobiografica, in Carmelo Bene divengono un inizio provocatorio e graffiante e insieme dolcissimo, di cui le frasi di apertura della sua autobiografia: Sono apparso alla Madonna, danno pienamente conto:

 “V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento

Affondare la propria origine -non necessariamente connessa alla nascita- in terra d’Otranto è destinarsi ad un reale immaginario

Ora, quando si narra una sia pur sintetica autobiografia, che fondandosi sul proprio non esserci, sull’abbandono, sulla mancanza, non può che lasciarsi stilare dall’immaginario di questo stesso reale, si vuol dire che Otranto fu visitata da una storia che, inclusa la strage dei Turchi, fu e continua ad essere il culto (cultura) di tutte le altre storie che quell'evento storico estromise


Ora, non è un azzardo, perché eccede l’azzardo, questo venir meno del raccontare. Ci si trova immersi in qualcosa che mai ebbe un inizio: un'etnia sposata a una vita immaginaria. Da inventare Per un'autobiografia rischiosissima, immaginaria e reale a un tempo”. (
Sono apparso alla Madonna, in Opere, cit. p. 693)

Come non sentire riecheggiare in questo inizio la conclusione pirandelliana dell’inganno? Nel “venir meno del raccontare” l’io non è più nemmeno il prodotto della narrazione, e ben poco sembra avere a che fare con la persona che lo incarna e/o con il racconto delle sue vicende: “Lo scritto…è la rimozione continua dell’interno.” (Autografia di un ritratto, in Opere. cit. p. XI), la scrittura è ciò che lo spodesta dal misterioso luogo in cui mai ebbe un inizio, per scaraventarlo semmai pericolosamente in una “parodia della vita interiore” (Sono apparso cit. p. 745)
Cominciò che era finita” dichiara Carmelo Bene senza mezzi termini all’inizio dell’ Autografia di un ritratto (cit., p. XI). Siamo ben lontani dal modello del “viaggio dell’eroe” cui volentieri indulgono tante autobiografie. In molteplici occasioni, a dar conto della sua affermazione, egli ripete che L’uomo è una situazione. Come fa un uomo a dire ‘io’?” e che “La coscienza è la scoperta che noi non siamo, siamo un divenire ma non siamo un essere.” (Cfr. ad es. Aforismi). Quasi accorato poi è il suo appello a disfarsi dell’ identità, ad abbandonare l’ io (preziosa in proposito la trasmissione televisiva Sushi MTV 1999 sul tema dell’ “identità”). In questottica, ritengo, non c’è e non potrebbe esserci un messaggio” che uno scritto autobiografico possa avere il compito di veicolare su un io narrante, che resta saldo nel fondo a far da motore immobile alla storia, quasi lautore fosse un Dio; non c’è alcuna interpretazione teologica di cui andare in cerca in un’autobiografia ondeggiante tra il reale e l’immaginario. Dire che Carmelo Bene guarda con sospetto al Self è dir poco. Semmai ce lo mette innanzi come una trappola conoscitiva messa lì ad insidiarci nel nome di ridicole ontologie: viceversa è a partire da una feroce autocontestazione  che è possibile cambiare qualcosa: “Se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare se stessi, andare contro se stessi fino in fondo.
Il massimo impegno civile è l’auto-contestazione.” (Su L’Europeo 1968)
Da qui il martellare continuo sulle pretese del dirsi, il mandarle in fumo. Da un simile punto di vista, si può solo assistere alle scampagnate dell’ “io” nel territorio del proprio mancare, del proprio non esserci  Verrebbe quasi da dire che, se ciò che manca, sottraendosi a ogni racconto, è la persona, al suo posto l’ “immaginario” crea il personaggio, una fittizia entità (immaginaria appunto) che pesca nel reale come in un canovaccio pieno di buchi (anche di buchi nel linguaggio) ma senza affondarvi, ed è, essa sola, chiamata a dar conto, se ci riesce, della mancanza del self. Più oltre non è possibile andare. Cavalli di Troia posteggiati nel cuore tutti i tentativi di rincorrere se stessi dentro un’ “autobiografia rischiosissima immaginaria e reale a un tempo”! Di fatto: “Si è nati. E la vita pare il tempo accordato alla giustificazione grottesca d’esserci” (Macbeth o il tramonto della solitudine, in Sono apparso…, cit., p.787). Ancora una volta riecheggia l’ “Io penso che la vita è una molto triste buffoneria” di Pirandello.


Una consonanza inaspettata

Tra la “giustificazione grottesca d’esserci” e la “feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all’inganno” sembra allora aprirsi una consonanza inaspettata di vedute, la scintilla colorata di cui dicevo
Si potrebbero quasi incastrare le due prospettive in un dialogo immaginario a tu per tu:

-Carmelo: “Chi vuol darsela a bere, beva pure. Io ho tracannato l'intera Scozia, diluendo il mio “io”dentro il bicchiere, inghiottendo l’ “esprimersi" e rivomitandomi fuori, oggetto. Il mio stomaco ha sempre rifiutato l'anima mia.” (Macbeth cit., p.787)
-Luigi: “Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. (Lettera, cit.)
-Carmelo: “… Cos’è stato? Un bel niente. S’è giocato, diciamo, a spaventarsi, bussando dall’interno; a figurarsi uno spettro di paura, un rimorso a tenerci compagnia. Vestiti degli umori più svariati, a persuaderci d’essere noi a decidere dei gesti,. E quando l'abito è stanco del suo monaco, il convento vanisce, inabitato.”  (Macbeth…, cit., p.787)
-Luigi: “La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all’inganno.
Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia arte, e anche della mia vita”. (Lettera, cit.)
-Carmelo: “Tutto il mio teatro comincia dall’ “addio”. C’è prima un addio, e poi la non-Storia, il non-evento” (Sono apparso…, cit. p.708)
-Luigi: “… nella mia vita non c'è niente che meriti di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri che... non sono lieti”. (Lettera, cit.)

Nulla da eccepire, beninteso, riguardo ai sacrosanti diritti dell’autobiografia. Il punto è che, quando compare all’interno del discorso autobiografico,  per quanto autentico e non fittizio sia il suo potere di riferirsi all’autore del racconto, l’ “io” (meglio ancora forse, il suo dirsi) non ha titolo che a riconoscersi autore della propria decomposizione. Quando crede di aver ricomposto i propri pezzi, quasi come un “eroe annientato dal suo stesso progetto” (Macbeth, cit. p. 786), ogni discorso dell’ “io” farebbe bene a chiedersi dove essi si siano nascosti, dove essi siano e anzitutto, se ci sono:
V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento”; “…chi non riesce piú a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita”. La nostalgia e il bisogno di non perdere il gusto della vita sembrano correre sulla stessa strada. La nostalgia non è il rimpianto. E’ sempre il “dolore del ritorno”. In questo caso, il ritorno dove non si è mai stati. Non si tratta di versare lacrimucce tardive su qualche occasione perduta che avrebbe cambiato il nostro destino e che noi non siamo stati capaci di cogliere. Si tratta invece di versare l’attenzione delle lacrime su qualcosa che si è dato, (foss’ anche l’inganno). In un qualche luogo, in un qualche tempo, in un qualche modo e in cui senza saperlo, consistiamo.
“Forse vi ho raccontato poche cose. E’ quanto mi è riuscito immaginare. Ma la vita che conta non è appunto proprio quanto ci manca?
Quante inezie vi avrei risparmiato, se fossi a questo mondo e Dio esistesse (Macbeth, cit. p. 788, corsivo mio ). Così parla l’io!

                                                        ^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

 

*  devo la suggestione a Carmelo Bene e la gestisco liberamente; non credo se ne dorrebbe. Luisolo è infatti il protagonista del suo Ritratto di Signora (ora in C. Bene, Opere, La Nave di Teseo).

** C. Bene,  Sono apparso alla Madonna, in Opere, cit. p. 694.                                                   

SUGGERIMENTI POETICI

1) Giornata di sciopero da sé stessi  (Charles Bernstein, Echo, Edizioni del Verri, Milano, p.102)

 Troppo a lungo abbiamo patito sotto il giogo dispotico di noi stessi

 *rifiuta di ascoltarti

*tronca ogni legame finanziario con te stesso

*disconosci i membri della tua famiglia e gli amici

*boicotta il tuo lavoro

*cancellati da tutti i social media

*dismetti l'autorità

*contesta attivamente la tua coscienza

 

ricorda: l’ io è il problema

 

2) Piano d’azione  (Charles Bernstein, op. cit., 99)

e se
noi semplicemente
non

3) L’eroe di nuvole  (Lucia Triolo, inedito)

chi non si accorge che

le sue cose

lo seguono?

 

Si era guastato il magnete

 

quest'uomo aveva

adesso il viso

al centro della terra non sua

di una terra vociante

ma assente

 

era senza cose

nulla più lo raccontava

in confidenza

 

arrivava solo

da nessuna parte

 

era un eroe di nuvole

 

 

                                          


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