La rapacità evocativa del nome non credo abbia bisogno di
spiegazioni, essa rimanda a qualcosa che ognuno di noi conosce più o meno bene
nella misura in cui siamo tutti inginocchiati dinnanzi all' "io",
anche quando (come negarlo) l'Io! (lancio e lascio l'esclamazione) è parola
che cancella le proprie lettere perchè ne ignora il senso o forse ne ha paura.
Siamo in genere ben lontani dal ritenere che la nostra vita sia “banale al
punto da non meritare non dico di scriverla, ma neppure di ripensarvi a lungo,
e non … più importante,…, di quella del primo che capita” (M.Yourcenar, Memorie di Adriano, in
La Biblioteca di Repubblica p. 25).
Catapultarsi allora su di sé o lasciare che la nostra penna
ci metta in disparte, ci ignori? Immagino il personaggio, Luisolo in
dialogo muto con se stesso, mentre se lo chiede:
-sei riuscito a staccarti da te stesso
o sei rimasto attaccato?
- ?
- hai preso trafelato le distanze da te o no?
- ?
- cosa volevi, cosa speravi dalle traveggole
di un io malinformato?
- ?
La scintilla indisciplinata
Il fatto è che, leggendo qui e là, a
spizzichi e bocconi su questo interessantissimo tema, mi è sembrato di cogliere
un colore, di catturare una scintilla che si sprigiona indisciplinata
dal modo in cui due autori a me molto cari ed entrambi meridionali tratteggiano
i caratteri della propria arte e a partire da essa, del loro “sé”. Gli autori
cui mi riferisco sono Luigi Pirandello e Carmelo Bene: da essi sprigiona una
scintilla indisciplinata, che disordina le consuete aspettative sul discorso
autobiografico.
Dicevo: "una scintilla indisciplinata" ed infatti nutro la
convinzione che per entrambi, l’ autoriflessione scritta sull'autore del
proprio operato artistico, cioè su se stessi, sia qualcosa di
im-pertinente, nel senso proprio di non pertinente al loro discorso
artistico-biografico, perchè in essa non ruotano inquadrature che come sgabelli
fedeli possano fare da supporto al soggetto che scrive. Quasi si trattasse di
un’indiscrezione nei propri confronti, per questi autori l’autobiografia può sortire
esiti imprevedibili che sfuggono di mano alla regia dell’autore, perchè in fin
dei conti risulta strumento inadatto ad adempiere i compiti cui dovrebbe
assolvere. Se infatti questa forma di scrittura svolge, in termini
generalissimi, il compito di mettere in piazza informazioni su chi scrive
(qualunque ne siano le ragioni: psicologiche, divulgative, economiche,
pubblicitarie), nell’ ottica di Luigi Pirandello e Carmelo Bene sembra che
questo tipo di riflessione sia incapace di fare goal nella porta dell’ “io”.
Essi non accampano diritti a firmare discorsi sul personaggio/compagno di
vita cui ci riferiamo con l’espressione “io” (ammesso che sia possibile farne
un’unità significante). Quasi che nell’autobiografia, l’ “io” dell’autore si
sottraesse all’ “essere detto”.
Pirandello e l’inganno continuo. La macchia dell’ “io”.
“Sono nato in Sicilia,
e precisamente in una campagna presso Girgenti”, così Pirandello inizia la
pagina della sua Lettera Autobiografica e, dopo un succinto
resoconto della propria giornata tipo, sorprendentemente continua:
Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi
non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita.
Cosí è”.
(L. Pirandello, Lettera
autobiografica di incerta data (1912/13). E’indirizzata a Filippo Súrico,
allora direttore del periodico romano “Le lettere” e fu ivi pubblicata nel
numero del 15/10/24. Poi ripubblicata nello stesso periodico “Le lettere”:
serie VII, n. 1, 28 febbraio 1938).
Ciò cui Pirandello ci mette dinnanzi (l’inganno
inevitabile che genera la parola su se stessi) è una sorta di
conclusione, ribadita in modo assai incisivo dal “Così è”. Si badi
bene, una conclusione per un’opera che non ha mai portato avanti,
per un’opera che manca. dal momento che la sua lettera autobiografica non è più
lunga di due paginette.
Creando un paradosso, egli affronta l’inganno cui,
come avverte, siamo esposti. Una vita che si lascia raccogliere in una storia,
diventa necessariamente una vita che ha un senso. E se la vita che si sta
raccontando è la mia, allora, che lo voglia o no, qualunque cosa io ne
racconti, comunque mi racconta. Ecco che la mia stessa esistenza si
riempie di senso. Di là da ogni diaspora, da ogni devastazione, l'identità del
soggetto si ricostituisce, e riprende forma la figura dell’io. Ma proprio qui,
sembra avvertirci Pirandello, sto nell’inganno.
Per quanto possa apparire singolare (e certamente lo è), egli
non fa altro che riproporre in poche righe, estremamente alte e suggestive, un’insidia
di cui l’oggi letterario è perfettamente consapevole (a partire almeno dalla
fine degli anni 60 del secolo scorso e dal vivace dibattito tra R.Barthes e
M.Foucault a proposito del principio di autorità autoriale). Dovunque
si esprima, la prima persona singolare matura la tendenza al dominio, alla
ricerca di ciò che lo connota (identità) e al trasferimento nell'oggetto
osservato delle caratteristiche che esso stesso si attribuisce: una sorta,
potrei dire, di macchia dell’ io che scolora tutto il resto. Avviene in
campo letterario qualcosa di analogo a ciò che avviene in campo
scientifico: come in quest’ultimo l’osservazione, la presenza dell’osservatore
e l’atto stesso dell’osservare modificano in qualche modo il fenomeno
osservato, così la presenza autoriale
non solo tradisce anche involontariamente quella sorta di autenticità del
significato di cui la si vorrebbe garante, ma finisce anche con l'alterare
il Self che la costituisce. In questi termini, la conoscenza, l’osservazione
in base all’ “io” deforma anche l’ “io” che vuole conoscere. E scatta il
meccanismo dell’inganno di cui nella Lettera.
Carmelo Bene e “la fine del teatrino conflittuale dell’ io”**
Affondare la propria origine -non necessariamente connessa alla nascita-
in terra d’Otranto è destinarsi ad un reale immaginario
…
Ora, quando si narra una sia pur sintetica autobiografia, che fondandosi sul
proprio non esserci, sull’abbandono, sulla mancanza, non può che lasciarsi
stilare dall’immaginario di questo stesso reale, si vuol dire che Otranto fu
visitata da una storia che, inclusa la strage dei Turchi, fu e continua ad
essere il culto (cultura) di tutte le altre storie che quell'evento storico estromise
…
Ora, non è un azzardo, perché eccede l’azzardo, questo venir meno del
raccontare. Ci si trova immersi in qualcosa che mai ebbe un inizio: un'etnia
sposata a una vita immaginaria. Da inventare Per un'autobiografia
rischiosissima, immaginaria e reale a un tempo”. (Sono apparso alla Madonna, in Opere, cit. p. 693)
Come non sentire riecheggiare in questo inizio la conclusione
pirandelliana dell’inganno? Nel “venir meno del raccontare” l’io non è più nemmeno
il prodotto della narrazione, e ben poco sembra avere a che fare con la persona
che lo incarna e/o con il racconto delle sue vicende: “Lo scritto…è la
rimozione continua dell’interno.” (Autografia di un ritratto, in Opere. cit. p. XI), la scrittura è ciò che lo spodesta dal misterioso luogo in cui
mai ebbe un inizio, per scaraventarlo semmai pericolosamente in una “parodia
della vita interiore” (Sono apparso… cit. p. 745)
“Cominciò che era finita” dichiara
Carmelo Bene senza mezzi termini all’inizio dell’ Autografia di un ritratto”
(cit.,
p. XI). Siamo ben lontani dal
modello del “viaggio dell’eroe” cui volentieri indulgono tante autobiografie.
In molteplici occasioni, a dar conto della sua affermazione, egli ripete che “L’uomo
è una situazione. Come fa un uomo a dire ‘io’?”
e che “La coscienza è la scoperta che noi non siamo, siamo un divenire ma non
siamo un essere.” (Cfr. ad es. Aforismi).
Quasi accorato poi è il suo appello a disfarsi dell’ identità, ad abbandonare l’
io (preziosa in proposito la trasmissione televisiva Sushi MTV 1999 sul
tema dell’ “identità”). In quest’ottica,
ritengo, non c’è e non potrebbe esserci un “messaggio”
che uno scritto autobiografico possa avere il compito di veicolare su un io
narrante, che resta saldo nel fondo a far da motore immobile alla
storia, quasi l’autore
fosse un Dio; non c’è alcuna interpretazione teologica di cui andare in cerca
in un’autobiografia ondeggiante tra il reale e l’immaginario. Dire che Carmelo
Bene guarda con sospetto al Self è dir poco. Semmai ce lo mette innanzi
come una trappola conoscitiva messa lì ad insidiarci nel nome di
ridicole ontologie: viceversa è a partire da una feroce autocontestazione che è possibile cambiare qualcosa: “Se si
vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare se stessi,
andare contro se stessi fino in fondo.
Il massimo impegno civile è l’auto-contestazione.” (Su L’Europeo 1968)
Da qui il martellare continuo sulle pretese del dirsi,
il mandarle in fumo. Da un simile punto di vista, si può solo assistere alle
scampagnate dell’ “io” nel territorio del proprio mancare, del proprio non
esserci Verrebbe quasi da dire che, se
ciò che manca, sottraendosi a ogni racconto, è la persona, al suo posto l’ “immaginario”
crea il personaggio, una fittizia entità (immaginaria appunto) che pesca nel
reale come in un canovaccio pieno di buchi (anche di buchi nel linguaggio) ma
senza affondarvi, ed è, essa sola, chiamata a dar conto, se ci riesce, della mancanza
del self. Più oltre non è possibile andare. Cavalli di Troia
posteggiati nel cuore tutti i tentativi di rincorrere se stessi dentro un’ “autobiografia
rischiosissima immaginaria e reale a un tempo”! Di fatto: “Si è nati. E la vita
pare il tempo accordato alla giustificazione grottesca d’esserci” (Macbeth o il tramonto della solitudine,
in Sono apparso…, cit., p.787). Ancora una volta riecheggia l’ “Io
penso che la vita è una molto triste buffoneria” di Pirandello.
Una
consonanza inaspettata
Tra la “giustificazione
grottesca d’esserci” e la “feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo
all’inganno” sembra allora aprirsi una consonanza inaspettata di vedute, la
scintilla colorata di cui dicevo
Si potrebbero quasi incastrare le due prospettive in un
dialogo immaginario a tu per tu:
-Carmelo:
“Chi vuol darsela a bere, beva pure. Io ho tracannato l'intera Scozia, diluendo
il mio “io”dentro il bicchiere, inghiottendo l’ “esprimersi" e
rivomitandomi fuori, oggetto. Il mio stomaco ha sempre rifiutato l'anima
mia.” (Macbeth cit., p.787)
-Luigi: “Chi ha capito il giuoco, non riesce più a
ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. (Lettera, cit.)
-Carmelo: “… Cos’è stato?
Un bel niente. S’è giocato, diciamo, a spaventarsi, bussando dall’interno; a
figurarsi uno spettro di paura, un rimorso a tenerci compagnia. Vestiti degli
umori più svariati, a persuaderci d’essere noi a decidere dei gesti,. E quando
l'abito è stanco del suo monaco, il convento vanisce, inabitato.” (Macbeth…, cit., p.787)
-Luigi: “La
mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che si ingannano; ma
questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del
destino, che condanna l'uomo all’inganno.
Questa, in succinto, la ragione dell'amarezza della mia
arte, e anche della mia vita”. (Lettera, cit.)
-Carmelo: “Tutto il mio teatro comincia dall’ “addio”.
C’è prima un addio, e poi la non-Storia, il non-evento” (Sono apparso…, cit.
p.708)
-Luigi: “… nella mia vita non c'è niente che meriti
di essere rilevato: è tutta interiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri
che... non sono lieti”. (Lettera, cit.)
Nulla da
eccepire, beninteso, riguardo ai sacrosanti diritti dell’autobiografia. Il
punto è che, quando compare all’interno del discorso autobiografico, per quanto autentico e non fittizio sia il
suo potere di riferirsi all’autore del racconto, l’ “io” (meglio ancora forse,
il suo dirsi) non ha titolo che a riconoscersi autore della propria
decomposizione. Quando crede di aver ricomposto i propri pezzi, quasi come un “eroe
annientato dal suo stesso progetto” (Macbeth, cit. p. 786), ogni discorso dell’ “io” farebbe bene
a chiedersi dove essi si siano nascosti, dove essi siano e anzitutto, se ci
sono:
“V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un
cominciamento”; “…chi non riesce piú a
ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita”.
La nostalgia e il bisogno di non perdere il gusto della vita sembrano
correre sulla stessa strada. La nostalgia non è il rimpianto. E’ sempre
il “dolore del ritorno”. In questo caso, il ritorno dove non si è mai
stati. Non si tratta di versare lacrimucce tardive su qualche occasione perduta
che avrebbe cambiato il nostro destino e che noi non siamo stati capaci di
cogliere. Si tratta invece di versare l’attenzione delle lacrime su qualcosa
che si è dato, (foss’ anche l’inganno). In un qualche luogo, in un qualche
tempo, in un qualche modo e in cui senza saperlo, consistiamo.
“Forse vi ho raccontato poche cose. E’ quanto
mi è riuscito immaginare. Ma la vita che conta non è appunto proprio quanto ci
manca?
Quante inezie vi avrei risparmiato, se
fossi a questo mondo e Dio esistesse” (Macbeth, cit. p. 788, corsivo mio ). Così parla l’io!
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
* devo la suggestione a Carmelo Bene e la gestisco
liberamente; non credo se ne dorrebbe. Luisolo è infatti il protagonista
del suo Ritratto di Signora (ora in C. Bene, Opere, La Nave di
Teseo).
** C. Bene, Sono apparso alla Madonna, in Opere, cit. p. 694.
SUGGERIMENTI POETICI
1) Giornata
di sciopero da sé stessi (Charles Bernstein, Echo,
Edizioni del Verri, Milano, p.102)
*tronca ogni legame finanziario con te stesso
*disconosci i membri della tua famiglia e gli
amici
*boicotta il tuo lavoro
*cancellati da tutti i social media
*dismetti l'autorità
*contesta attivamente la tua coscienza
ricorda: l’ io è il
problema
2) Piano d’azione
(Charles Bernstein, op. cit., 99)
e se
noi semplicemente
non
3) L’eroe di nuvole
(Lucia Triolo, inedito)
chi
non si accorge che
le
sue cose
lo
seguono?
Si
era guastato il magnete
quest'uomo
aveva
adesso
il viso
al
centro della terra non sua
di
una terra vociante
ma
assente
era
senza cose
nulla
più lo raccontava
in
confidenza
arrivava
solo
da
nessuna parte
era
un eroe di nuvole
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