martedì 21 gennaio 2025

PAROLA CHIAVE: BIOGRAFIA O AUTOBIOGRAFIA? - Giovanna Calvo

 

Biografia o autobiografia?

La poesia aspira, con successo, a rappresentare un’essenza: poche frasi, spesso poche parole, e vita, cose e persone si animano (entrano nel profondo dell’anima. Alla prosa, ai narratori, occorrono un sacco di parole e/o pagine su pagine, per raccontare. Ma all’autenticità e alla verità, ideali a cui tutti, più o meno, aspiriamo, non giungono né la poesia né la prosa. A leggere Fernando Pessoa però “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”. C’è poeta e poeta, dunque.

Una si aspetterebbe che una biografia e, tanto più, una autobiografia, raccontino la verità di una persona, la sua vita vera, pensieri e azioni e emozioni, insomma. Ma non è così, secondo la mia esperienza. Gli occhi ci ingannano, la mente pure, la realtà ci sfugge. E la realtà non si può raccontare, altrimenti diventa cronaca. Ma allora come fare? Ho letto biografie che erano una sequela di date, di avvenimenti, di azioni e reazioni, e non mi hanno restituito la verità di una persona, la sua realtà. Ne ho letto altre che invece, quasi in forma di romanzo, hanno saputo raccontare a tutto tondo una persona e bene, tanto che mi è diventata “familiare”. La domanda di fondo che mi tormenta è: quanto conosciamo noi stessi, quanto conosciamo le persone che ci stanno attorno o che amiamo? Una domanda antica ma sempre attuale. E potremmo, se ne avessimo la capacità, scriverne una biografia veritiera? E ai fini della conoscenza dell’altro da noi, poi, ci servirebbe davvero? Esempi: se un matrimonio, una convivenza, una relazione, dovesse durare cinquanta anni e più, non sarebbe meglio non sapere tutto e scoprire nel tempo, con calma, aspetti della personalità dell’altro e così facendo lasciarsi sorprendere e incuriosirsi malgrado la vita abbia un finale certo?

Quindi ci servirebbe davvero una biografia il più possibile vicina alla verità? Non credo: non siamo mai abbastanza attenti all’altro, non osserviamo abbastanza, non entriamo nei suoi panni, non siamo empatici. E chi volesse scrivere un’autobiografia? Ci sarebbero, in tal caso, garanzie che si racconti il vero, la propria verità, che si diano strumenti di comprensione sufficienti a conoscere davvero chi parla e racconta di sé?

Non credo, perché non siamo mai davvero sinceri, autentici: “[] considerate che noi non comprendiamo noi stessi e che non sappiamo ciò che vogliamo, e che ci allontaniamo infinitamente da ciò che desideriamo”. Questo scriveva Santa Teresa d’Avila.

Ma aiutiamoci, proviamoci comunque a scrivere la nostra biografia, per conoscerci. E non pensiamo, come diceva Mario Vargas Llosa, che la scrittura diventi una “rivolta contro la realtà” e sia un tentativo di correggere, cambiare o cancellarla, la realtà. Tenere un diario aiuta: in futuro ci servirà come base per capire i noi stessi di un tempo e vedere come e se siamo cambiati. Raccontiamoci la nostra storia, insomma.

Una notazione personale: dopo la prematura scomparsa di mia sorella mi trovo circondata dalle sue cose, libri, oggetti, soprattutto. Mi sono messa in ascolto, ho cercato di entrare nell’anima e nella realtà di mia sorella attraverso le cose che le erano care e che aveva attorno. Dai libri che aveva comprato e letto, ma anche da quelli che non ha letto, ho capito tanto. Malgrado la familiarità e gli anni trascorsi fianco a fianco non credo riuscirei a scrivere la sua biografia. Sarebbe, come dire, la mia versione. E non ne posso più controllare la veridicità. Meglio sarebbe scrivere un romanzo o un racconto: un’opera di fantasia che però sarebbe la mia realtà e diventerebbe realtà anche per tutti gli altri, per i lettori. Ma sto pensando che scrivere una poesia per mia sorella, o su mia sorella, sarebbe meglio che un romanzo. La poesia è necessaria. Vitale, anche per chi non c’è più.

La finzione, l’immaginazione di uno scrittore è spesso una verità, una realtà celata ma trasparente. L’esempio è ciò che accadde allo scrittore statunitense Truman Capote: in molti suoi romanzi alcuni personaggi erano modellati sui suoi amici, che se ne risentirono perché si erano riconosciuti ma Capote rispose loro che non dovevano avercela con lui, perché lui era uno scrittore e non potevano pensare di essere ignorati o che non potessero diventare “materia” per un racconto. Lui li aveva “creati” perché poteva, perché era uno scrittore. Evidentemente Capote aveva colto la realtà, l’autenticità dei suoi amici e loro non accettavano l’immagine, il ritratto che ne era venuto fuori… non si conoscevano abbastanza loro, mentre lo scrittore ne aveva saputo cogliere la verità. Per togliersi dai guai, Capote avrebbe potuto, come succede spessissimo, scrivere sulla seconda di copertina dei suoi libri “Questa è un’opera di fantasia. Personaggi citati in questo romanzo sono frutto dell’immaginazione dell’autore o, se realmente esistenti, sono usati a fini narrativi, senza alcun intento di descrivere il loro vero operato.”

Incapace di finire con una poesia prendo a prestito quella che si trova nel romanzo di Hermann Hesse “Il Giuoco delle perle di vetro”.

MA IN NOI C’E’ UN’ANSIA

Tutta spirito e grazia d’arabesco

La vita nostra sembra che s’aggiri

E danzi come fata intorno al nulla

Cui consacrammo l’oggi ed il domani

O sogni belli, trastulli soavi,

magie di lievi e pure consonanze,

sotto il sereno vostro aspetto cova

brama di sangue, tenebra e barbarie.

Ridda nel vuoto libera da impacci

La nostra vita, sempre pronta al giuoco,

ma in noi c’è un’ansia d’essere e creare,

un desiderio di dolore e morte.

 

Da questa vita non ne usciremo vivi. Lo sappiamo. Ma prima almeno raccontiamo le storie, le nostre e quelle degli altri, tutti gli altri. Questo lo sappiamo fare, da sempre. Forse perché è il destino dell’uomo, raccontare. Altro non c’è. Ma poi… che ne so io? Che ne sappiamo noi?



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