Biografia o
autobiografia?
La poesia
aspira, con successo,
a rappresentare un’essenza: poche frasi, spesso poche parole, e vita, cose e persone si animano (entrano
nel profondo dell’anima. Alla prosa, ai narratori, occorrono un sacco di parole
e/o pagine su pagine,
per raccontare. Ma all’autenticità e alla verità, ideali a cui tutti, più o
meno, aspiriamo, non giungono né la poesia né la prosa. A leggere Fernando
Pessoa però “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a
fingere che è dolore il dolore che davvero sente”. C’è poeta e poeta, dunque.
Una si
aspetterebbe che una biografia e, tanto più, una autobiografia, raccontino la verità di una persona,
la sua vita vera, pensieri e azioni e emozioni, insomma. Ma non è così, secondo la mia esperienza. Gli occhi
ci ingannano, la mente pure, la realtà ci sfugge. E la realtà non si può
raccontare,
altrimenti diventa cronaca. Ma allora come fare? Ho letto biografie che erano una
sequela di date, di avvenimenti, di azioni e reazioni, e non mi hanno restituito la verità di
una persona, la sua realtà. Ne ho letto altre che invece, quasi in forma di
romanzo, hanno saputo raccontare a tutto tondo una persona e bene, tanto che mi
è diventata “familiare”. La domanda di fondo che mi tormenta è: quanto
conosciamo noi stessi, quanto conosciamo le persone che ci stanno attorno o che
amiamo? Una domanda antica ma sempre attuale. E potremmo, se ne avessimo la
capacità, scriverne una biografia veritiera? E ai fini della conoscenza
dell’altro da noi, poi, ci servirebbe davvero? Esempi: se un matrimonio, una
convivenza, una relazione, dovesse durare cinquanta anni e più, non sarebbe
meglio non sapere tutto e scoprire nel tempo, con calma, aspetti della
personalità dell’altro e così facendo lasciarsi sorprendere e incuriosirsi
malgrado la vita abbia un finale certo?
Quindi ci
servirebbe davvero una biografia il più possibile vicina alla verità? Non
credo: non siamo mai abbastanza attenti all’altro, non osserviamo abbastanza,
non entriamo nei suoi panni, non siamo empatici. E chi volesse scrivere
un’autobiografia? Ci sarebbero, in tal caso, garanzie che si racconti il vero,
la propria verità, che si diano strumenti di comprensione sufficienti a
conoscere davvero chi parla e racconta di sé?
Non credo,
perché non siamo mai davvero sinceri, autentici: “[…] considerate che noi non comprendiamo
noi stessi e che non sappiamo ciò che vogliamo, e che ci allontaniamo
infinitamente da ciò che desideriamo”. Questo scriveva Santa Teresa d’Avila.
Ma aiutiamoci,
proviamoci comunque a scrivere la nostra biografia, per conoscerci. E non pensiamo, come diceva Mario
Vargas Llosa, che la scrittura diventi una “rivolta contro la realtà” e sia un tentativo di correggere, cambiare
o cancellarla,
la realtà. Tenere un diario aiuta: in futuro ci servirà come base per capire i
noi stessi di un tempo e vedere come e se siamo cambiati. Raccontiamoci la
nostra storia,
insomma.
Una notazione
personale: dopo la prematura scomparsa di mia sorella mi trovo circondata dalle
sue cose, libri, oggetti, soprattutto. Mi sono messa in ascolto, ho cercato di
entrare nell’anima e nella realtà di mia sorella attraverso le cose che le
erano care e che aveva attorno. Dai libri che aveva comprato e letto, ma anche da quelli che non ha letto,
ho capito tanto. Malgrado la familiarità e gli anni trascorsi fianco a fianco
non credo riuscirei a scrivere la sua biografia. Sarebbe, come dire, la mia
versione. E non ne posso più controllare la veridicità. Meglio sarebbe scrivere
un romanzo o un racconto: un’opera di fantasia che però sarebbe la mia realtà e
diventerebbe realtà anche per tutti gli altri, per i lettori. Ma sto pensando
che scrivere una poesia per mia sorella, o su mia sorella, sarebbe meglio che
un romanzo. La poesia è necessaria. Vitale, anche per chi non c’è più.
La finzione,
l’immaginazione di uno scrittore è spesso una verità, una realtà celata ma
trasparente. L’esempio è ciò che accadde allo scrittore statunitense Truman
Capote: in molti suoi romanzi alcuni personaggi erano modellati sui suoi amici,
che se ne risentirono perché si erano riconosciuti ma Capote rispose loro che
non dovevano avercela con lui,
perché lui era uno scrittore e non potevano pensare di essere ignorati o che
non potessero diventare “materia” per un racconto. Lui li aveva “creati” perché
poteva, perché era uno scrittore. Evidentemente Capote aveva colto la realtà,
l’autenticità dei suoi amici e loro non accettavano l’immagine, il ritratto che
ne era venuto fuori… non si conoscevano abbastanza loro, mentre lo scrittore ne
aveva saputo cogliere la verità. Per togliersi dai guai, Capote avrebbe potuto,
come succede spessissimo, scrivere sulla seconda di copertina dei suoi libri
“Questa è un’opera di fantasia. Personaggi citati in questo romanzo sono frutto
dell’immaginazione dell’autore o, se realmente esistenti, sono usati a fini
narrativi, senza alcun intento di descrivere il loro vero operato.”
Incapace di
finire con una poesia prendo a prestito quella che si trova nel romanzo di Hermann
Hesse “Il Giuoco delle perle di vetro”.
MA IN NOI C’E’
UN’ANSIA
Tutta
spirito e grazia d’arabesco
La
vita nostra sembra che s’aggiri
E
danzi come fata intorno al nulla
Cui
consacrammo l’oggi ed il domani
O
sogni belli, trastulli soavi,
magie
di lievi e pure consonanze,
sotto
il sereno vostro aspetto cova
brama
di sangue, tenebra e barbarie.
Ridda
nel vuoto libera da impacci
La
nostra vita, sempre pronta al giuoco,
ma
in noi c’è un’ansia d’essere e creare,
un
desiderio di dolore e morte.
Da questa vita
non ne usciremo vivi. Lo sappiamo. Ma prima almeno raccontiamo le storie, le
nostre e quelle degli altri, tutti gli altri. Questo lo sappiamo fare, da
sempre. Forse perché è il destino dell’uomo, raccontare. Altro non c’è. Ma poi…
che ne so io? Che ne sappiamo noi?
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