Queste le parole scelte da Grazia Procino per raccontare il suo nuovo libro di poesie
“Filottete ovvero i vuoti
ancora da sfamare” è la ricerca-studio sulle figure del mito, contrassegnate
dalla tragica solitudine e dalla sconfitta nel confronto e scontro con il
mondo. A partire dallo sfortunato Filottete, che, ferito, viene abbandonato su
un’isola deserta dai suoi compagni guerrieri, fino a comprendere, in una
galleria poetica, le figure di Palamede, Priamo, Ifigenia, Calipso, Arianna; l’opera ridisegna, in una prospettiva
ribaltata e pasoliniana, la centralità dei vinti, perfino la loro
irrinunciabile esemplarità.
Sconfitti
è
la prima parola per disegnare il percorso di senso della silloge e ne contiene
la quintessenza, l’obiettivo perseguito.
che mi ha ucciso
il figlio
ha conquistato la
mia città
ha sventrato la
mia carne
prosciugando il
mio sangue.
Lì davanti a cibi
succulenti se ne sta
seduto
attorniato da
donne e uomini imploranti
compiaciuto del
suo ardore guerresco
vincitore
vittorioso
vincente
vivo
può guardare con
soddisfazione beffarda
il corpo nudo
tendere la mano al
vecchio sopraffatto.
I silenzi spaccano
i timpani
le lacrime
rattrappite si seccano
negli occhi
non c’è ancora
molto giorno
per fermarmi a piangere.
Il dolore ha tempo
a scadenza limitata:
si può gioire dopo
il pianto.
Il
mio studio recupera le figure dei vinti mitologici, i dimenticati come
Palamede, l’anti-Ulisse, le abbandonate come Arianna e Calipso, le sacrificate
come Ifigenia e intende nel mito recuperare i paradigmi dei sentimenti che
ancora allignano nell’uomo perché il mito parla ancora all’uomo di oggi, è
eterno e contemporaneo.
Quando mi svegliai
il sole era vivo
io mi scoprii
dalle lenzuola bianche:
accanto non avevo
nessuno.
Non più baci sulla
fronte con cui
iniziavo le
incombenze del giorno.
Ero stata
abbandonata. Di notte.
Dall’uomo che
diceva di non poter fare a meno di me.
Dov’erano le sue
promesse?
Fui sul punto di
annegare dentro
lacrime dal sapore
amaro.
Guardai il mare
davanti a me
l’amore era
partito da lì.
Feci la promessa
di non smarrirmi.
Puntai i piedi sul
terreno robusto e
attesi il
presente.
La contemporaneità quale spazio e tempo in cui gli archetipi mitici trovano ancora collocazione è la terza parola che configura la silloge. In modo particolare, il tempo sospeso e interrotto della pandemia da Covid segna la scrittura di questa silloge come un sigillo inamovibile, la percorre imprimendo la direzione e l’uscita dal tunnel.
Tra le sferzate improvvise del vero
e il male sempre in agguato
(è così, davvero)
sorpresa e gioia
è la nostra reciproca
cura a difenderci,
anche quando nessun tormento plana.
Oltre i luoghi andiamo d’accordo
a viverci addosso
oltre il tempo ci incamminiamo
perché il dolore non si comprende
né si elude:
si raffredda nell’amore.
Anche se mi esercito a tradurre
l’approdo al dolore
mi sfugge o
io mi allontano, risoluta.
Vorrei catturare l’angolo di luce
e farlo durare
accendere bellezza
mangiare per le strade assolate
con il mare addormentarmi
oppure parlarci
accogliere le voci spoglie:
io vado in cerca dell’umano
tra voli inceppati e brulicare di
sogni.
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