Dall’incisione di Escher Dag
en Nacht appesa al muro, l’ultimo
sguardo prima di togliermi gli occhiali e poggiarli sul comodino cadde sui
fogli che vi stavano posati, su cui avevo stampato il racconto di Johannes
Kepler, Keplero insomma. Somnium
è una storia di terra e luna, di demoni e ombre, di figlio e madre e streghe,
ma soprattutto antenata di tanta fantascienza. Sopra di essi la raccolta di
articoli Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao di Carlo Rovelli e l’edizione Oscar Mondadori delle
Cosmicomiche di Italo Calvino, che stavo rileggendo. Forse fu questa vista
sinottica che mi indusse il sogno.
Duracoto e Qfwfq stavano discutendo
tra loro cercando di capire come recapitare il senno perduto, dacché Astolfo
aveva problemi con gli animalisti che gli impedivano di utilizzare l’ippogrifo
per le sue puntate lunari: giudicavano lo stress a cui veniva sottoposta la
mitica creatura non più tollerabile. Intanto Orlando era veramente furioso e
recitava senza posa i versi della Chanson d’Aspermont.
Dalla
luna, non c’è che dire, la terra è uno spettacolo affascinante, forse un po’ monotono,
anche se le nuvole bianche, le luci notturne delle città a contrasto del buio
degli oceani donano al pianeta blu (quando lo vediamo nella parte assolata) un
movimento cromatico interessante.
Peraltro,
Duracoto non conosce soltanto con la vista, ma anche con il sogno, mentre Qfwfq
quando fu conchiglia sviluppò i propri occhi perché intuì vi fosse qualcosa da
vedere, ma la consapevolezza primaria era quella di creare la spirale con le
proprie secrezioni. È come per i cani, che conoscono col fiuto, costruiscono la
mappa di un mondo di secrete molecole olfattive, che a noi rimane segreto,
comunque ignoto.
Dunque,
la terra risultava per loro argomento interessante, perché, vicina com’è,
attenua quella sensazione angosciosa d’infinito che lo spazio cosmico porta con
sé lasciando un po’ spaesati, anche se Qfwfq manteneva con piacere un vago
ricordo di quelle poche centinaia di migliaia di anni luce prima del big bang e
delle fluttuazioni quantistiche nel vuoto.
Quella
sera, ossia la sera per l’emisfero terrestre che avevano di fronte in quel
momento, appuntarono la loro attenzione su una parte specifica del pianeta, la
punta di una penisola con delle macchie scure tra le luci. Ovviamente Qfwfq sapeva
fossero le grandi aree montuose della Calabria, noto sfasciume pendulo
sul mare, terra inquieta, migrante,
sismica, franosa, in perenne movimento. Gli piace ripetere sino alla noia la
storia che trenta milioni d’anni fa (lui c’era, ovviamente) quel pezzo di terra
stava tutt’una con Provenza, Catalogna, Corsica e Sardegna, per poi staccarsene
e vagare per mare finendo incistata nella penisola appenninica. Come un orso polare
sui frammenti di ghiaccio, era andato vagando sopra quel frammento di Pangea
molte volte, finendo poi per farvi il fossile in una delle terrazze
aspromontane.
Aguzzando
la vista, lì dalla luna, nel Golfo di Lamezia si vede una strisciolina
interrotta che si protende in mare, come un pontile distrutto o, forse, non
finito. Perché tutto è precario, instabile: costruisci sapendo che prima o poi
possa arrivare un terremoto.
I terremoti
modificano luoghi e biografie. Per questo la storia li cataloga, ma la memoria
sociale ne cancella le tracce dalla propria consapevolezza in un paio di
generazioni. Le apocalissi non sopravvivono nei ricordi ma nei racconti.
I
ricordi sono sempre labili, modificabili, mentre l’arte riesce a fermare
finanche le sensazioni e a portarle lontano, ribaltando le prospettive e
ingannando la percezione. Nel 1930 Maurits Cornelis Escher fece un lungo
viaggio in Calabria: terra strana, povera e lontana. In Olanda, il suo paese
d’origine, il paesaggio era piatto. In Calabria tutto era invece irregolare,
scosceso, frantumato e quelle visioni incisero profondamente nella sua mente e
nel suo stesso segno di incisore. Prese una nave a Napoli e sbarcò a Pizzo,
lato Tirreno, scendendo poi a Sud e scoprendo Tropea, Nicotera, Palmi, Bagnara, Scilla e poi,
costeggiando la punta dello Stivale e risalendo, lato Jonio, arrivando a
Bova Marina, Melito Porto
Salvo, Stilo, Monasterace.
Attraversò questi luoghi marginali ma di assoluta bellezza in sella ad un mulo,
raggiungendo i borghi grecanici tra Palizzi
a Pentadattilo. Poi, ancora verso nord, arrivò a Catanzaro, Santa Severina, Crotone, Cariati,
Rossano, Rocca Imperiale e Morano Calabro. Fermò in molti
schizzi le verticalità dei paesaggi, gli arroccamenti degli abitati. Da essi
trasse poi tredici stampe, Calabrie: sei
xilografie e sette litografie, dove già si trovavano i segni di quello
specchiarsi delle forme della realtà nei labirinti della mente, caratteristico
del suo stile artistico.
Il
ricordo della Calabria rimarrà e riemergerà nelle sue opere successive. Furono
le forme della terra a conquistarlo, così irregolari e permeate dal caotico
succedersi della storia geologica e umana. Era la prospettiva a frangersi, come
se coste e colline potessero schiacciarsi e curvarsi, e con esse le case e
finanche il destino.
Disegnò la rupe di Tropea,
antica e fiera a cospetto del mare, nella quale
natura e mano dell’uomo si fondono, gli edifici paiono sorgere da essa
piuttosto che poggiare sulla friabile arenaria, metafora della perenne
precarietà della nostra storia.
Se è questo che vede l’artista, che vedono Duracoto e Qfwfq,
forse si spiega perché le case non sono finite, c’è un finto finito che lascia
trasparire una spiritualità rassegnata dai muri non intonacati, dai mattoni a
vista, dai tondini che dai tetti spuntano provvisori immaginando future
sopraelevazioni, come le case ai fianchi dell’Amendolea. Però – proprio là dove
sfocia la grande fiumara – nella grecità mediterranea della spiaggia di
Condofuri un giovane Carlo Rovelli riesce a comprendere la relatività generale:
vista da lì la relatività la vedi e quasi la tocchi.
Su quella riva finì il mio sogno, tra il non finito edificio della
conoscenza e l’infinito della coscienza.

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