La recrudescenza della violenza sulle donne
C’è un confine che continua a sanguinare. Lo si
riconosce nel linguaggio della cronaca, nei volti delle madri che sopravvivono
alle figlie, negli sguardi delle ragazze che imparano troppo presto la prudenza
come una seconda pelle. La violenza sulle donne non è un episodio: è un sistema
che crolla e non vuole crollare, è una cultura che rifiuta di riconoscere il
proprio fallimento.
L’opera d’arte, quando è vera, ci costringe a fermarci
su quel bordo.
Artemisia Gentileschi, con la sua Giuditta che
decapita Oloferne, non dipinge un atto sanguinoso: dipinge la restituzione di
una dignità violata. Käthe Kollwitz, nelle sue figure straziate, mostra la
maternità ferita che non perde mai il coraggio di guardare.
Goya ci ricorda che non esiste civiltà che possa dirsi civile se accetta
l’annientamento del corpo femminile.
Eppure, ciò che più colpisce non è la brutalità
rappresentata, ma la postura dell’arte: essa non distoglie, non alleggerisce,
non abbellisce. Si pone accanto, testimone irriducibile.
Perché la violenza sulle donne accade là dove la
società smette di guardare.
Dal Sud, da quel Mediterraneo che ha generato miti e
ferite, sorge una voce che non vuole più tacere. Qui, dove le donne sono state
pietra angolare delle famiglie, custodi della memoria, alfabeto vivente delle
nostre radici, ogni aggressione contro di loro è una frattura cosmica, un
tradimento della nostra stessa storia.
La poesia — quella che nasce sui bordi, nei margini
fertili dell’esistenza — sa trasformare la denuncia in rivelazione. Non
consola, ma apre. Dice che non basteranno le leggi se non cambierà la cultura.
Dice che non basteranno i cortei se non cambierà
l’immaginario maschile.
Dice che non basteranno le lacrime se non cambieranno
le parole, quelle che ogni giorno nutrono o avvelenano il nostro modo di amare.
La poesia, quando è necessaria, non cerca bellezza:
cerca verità.
E la verità oggi è questa: ogni donna ferita è una
crepa nel mondo.
Ogni donna salvata è un pezzo di futuro che
ricomincia.
Nota introduttiva alla poesia di Vittorio Politano
C’è un punto — sottile, quasi tremante — in cui il
dolore collettivo incontra la responsabilità dell’arte. È un bordo vivo, dove
la parola deve imparare a non gridare più forte del grido, e l’immagine deve
farsi varco, non spettacolo.
Qui si pone la poesia quando tenta di avvicinare ciò che non dovrebbe accadere
più: la violenza sulle donne. Eppure riaccade, ostinata, feroce, quotidiana.
L’arte allora non consola: inquieta. Rende visibile l’invisibile, rompe le
superfici, costringe a vedere.
Dal Mezzogiorno d’Italia — dove la luce è spesso più
antica dell’ombra — nasce uno sguardo che non si rassegna. Uno sguardo che
conosce il peso del silenzio e la forza di quelle donne che, nella storia,
hanno retto famiglie, comunità, perfino la geografia emotiva di interi paesi.
La poesia dell’opera
La ferita che parla, la poesia che
resiste
Non c'è quadro che basti,
non c'è colore che contenga
la vertigine di un nome spento troppo presto.
Eppure l’arte insiste,
come chi posa una mano sulla spalla del dolore
e dice: “Ti vedo”.
Sul bordo del silenzio
la donna si rialza
— non per perdonare,
non per dimenticare —
ma per restituire al mondo la misura esatta
della sua presenza.
Ogni volta che una voce femminile
viene zittita,
si oscura una costellazione.
Ogni volta che una voce femminile
si salva,
si accende un nuovo centro nell’universo.
E noi, piccoli testimoni del tempo,
restiamo sul limite,
in ascolto del respiro che continua
nonostante tutto,
nonostante tutti.

Nessun commento:
Posta un commento