lunedì 1 dicembre 2025

APPUNTI SUL BORDO: La ferita che parla, la poesia che resiste - a cura di Vittorio Politano


 La recrudescenza della violenza sulle donne

C’è un confine che continua a sanguinare. Lo si riconosce nel linguaggio della cronaca, nei volti delle madri che sopravvivono alle figlie, negli sguardi delle ragazze che imparano troppo presto la prudenza come una seconda pelle. La violenza sulle donne non è un episodio: è un sistema che crolla e non vuole crollare, è una cultura che rifiuta di riconoscere il proprio fallimento.

L’opera d’arte, quando è vera, ci costringe a fermarci su quel bordo.

Artemisia Gentileschi, con la sua Giuditta che decapita Oloferne, non dipinge un atto sanguinoso: dipinge la restituzione di una dignità violata. Käthe Kollwitz, nelle sue figure straziate, mostra la maternità ferita che non perde mai il coraggio di guardare.
Goya ci ricorda che non esiste civiltà che possa dirsi civile se accetta l’annientamento del corpo femminile.

Eppure, ciò che più colpisce non è la brutalità rappresentata, ma la postura dell’arte: essa non distoglie, non alleggerisce, non abbellisce. Si pone accanto, testimone irriducibile.

Perché la violenza sulle donne accade là dove la società smette di guardare.

Dal Sud, da quel Mediterraneo che ha generato miti e ferite, sorge una voce che non vuole più tacere. Qui, dove le donne sono state pietra angolare delle famiglie, custodi della memoria, alfabeto vivente delle nostre radici, ogni aggressione contro di loro è una frattura cosmica, un tradimento della nostra stessa storia.

La poesia — quella che nasce sui bordi, nei margini fertili dell’esistenza — sa trasformare la denuncia in rivelazione. Non consola, ma apre. Dice che non basteranno le leggi se non cambierà la cultura.

Dice che non basteranno i cortei se non cambierà l’immaginario maschile.

Dice che non basteranno le lacrime se non cambieranno le parole, quelle che ogni giorno nutrono o avvelenano il nostro modo di amare.

La poesia, quando è necessaria, non cerca bellezza: cerca verità.

E la verità oggi è questa: ogni donna ferita è una crepa nel mondo.

Ogni donna salvata è un pezzo di futuro che ricomincia.


Nota introduttiva alla poesia di Vittorio Politano

C’è un punto — sottile, quasi tremante — in cui il dolore collettivo incontra la responsabilità dell’arte. È un bordo vivo, dove la parola deve imparare a non gridare più forte del grido, e l’immagine deve farsi varco, non spettacolo.
Qui si pone la poesia quando tenta di avvicinare ciò che non dovrebbe accadere più: la violenza sulle donne. Eppure riaccade, ostinata, feroce, quotidiana. L’arte allora non consola: inquieta. Rende visibile l’invisibile, rompe le superfici, costringe a vedere.

Dal Mezzogiorno d’Italia — dove la luce è spesso più antica dell’ombra — nasce uno sguardo che non si rassegna. Uno sguardo che conosce il peso del silenzio e la forza di quelle donne che, nella storia, hanno retto famiglie, comunità, perfino la geografia emotiva di interi paesi.


La poesia dell’opera

La ferita che parla, la poesia che resiste

Non c'è quadro che basti,
non c'è colore che contenga
la vertigine di un nome spento troppo presto.
Eppure l’arte insiste,
come chi posa una mano sulla spalla del dolore
e dice: “Ti vedo”.

Sul bordo del silenzio
la donna si rialza
— non per perdonare,
non per dimenticare —
ma per restituire al mondo la misura esatta
della sua presenza.

Ogni volta che una voce femminile
viene zittita,
si oscura una costellazione.
Ogni volta che una voce femminile
si salva,
si accende un nuovo centro nell’universo.

E noi, piccoli testimoni del tempo,
restiamo sul limite,
in ascolto del respiro che continua
nonostante tutto,
nonostante tutti.






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