La parola poetica può contribuire a disattivare gli automatismi
con cui percepiamo la realtà, a disinnescare l’abitudine con cui guardiamo i
nostri modi di esistenza. Restituire l’oggetto come “visione” e non come
“riconoscimento”: resto legato a questa ipotesi di Šklovskij (L’arte come
procedimento), secondo la quale anche la più consuetudinaria delle azioni
umane, filtrata dall’arte, disvela qualcosa che i nostri sensi tendono a
riportare a meccanismi percettivi consolidati, costringendoci a non “vedere” (nel
senso di non conoscere) cosa si cela dietro quelle azioni, quali effetti
comportano. È una modalità che porta l’autore e il lettore a straniarsi. Lo
sguardo, l’osservazione diventano allora metafora del processo conoscitivo (in
cui sono coinvolti innanzitutto i sensi) che la parola poetica può liberare.
La verità non è nella poesia, né nel mero dato materiale. Il
processo conoscitivo di cui parlavamo prima è dato da una stretta relazione tra
parola e fatti, tra linguaggio e realtà. Da qui, direi, l’attenzione a ciò che
chiami “elementare”, ai fatti costitutivi della vita. L’ambizione è sottoporre
questa attenzione a uno sguardo dislocato, in modo da non restituire un
semplice rispecchiamento. Proprio la serie “Insetti”, in particolare il primo
testo che apre la raccolta, voleva essere esemplificativa di questo
atteggiamento. Il confronto con altre specie diviene una possibilità altra di
percezione e, sebbene in via negativa, una possibilità di immaginare modi
alternativi di esistenza.
Tempo quotidiano e tempo storico sono profondamente intrecciati.
Non si dà, a mio giudizio, opposizione. Il tempo storico condiziona le pieghe
più intime della nostra vita, persino i moti psichici più nascosti: se
crediamo, ad esempio, che per ognuno di noi sono costitutivi i traumi familiari
sin dai primi vagiti, ebbene la struttura familiare è sempre connotata
storicamente. Il tempo quotidiano può essere, dunque, allegoria del tempo
storico, se non addirittura un sintomo. Non si dà poesia fuori dalla storia.
Anche le posizioni verso astrattezza e purezza della poesia sono determinate
storicamente. Qualsiasi fuga dalla storia è un gesto storico.
Il libro precedente, Misura, era organizzato
poematicamente, con un’unica struttura metrica (il distico libero). Ciò
significa che l’aspetto progettuale era preponderante. Da un lato, quindi, il
progetto garantiva una scrittura sicura e guidata, dall’altro, però, quel
progetto finiva per essere una prigione. In Campo aperto (e il titolo ha
anche queste risonanze interne, oltre ad essere un’immagine della “possibilità”
in generale) ho lasciato più autonomia al farsi dei singoli testi, lavorando
successivamente a un’articolazione strutturale per il libro. Dialetticamente,
sono ritornato a modalità di scritture più vicine al primo libro (Gli
oggetti trapassati), ma con l’esperienza dei vincoli di Misura. Non
a caso, una sezione accoglie alcuni testi proprio degli Oggetti. Ciò mi
ha permesso di ritornare alle potenzialità del testo discontinuo proprio della
poesia moderna e contemporanea: la natura discreta della temporalità, la messa
in evidenza delle fratture, l’autonomia formale di ogni singola tessera vengono
lavorati di contrappunto in una fase successiva, creando l’unità dei molti.
CAMPO
APERTO
Quanto di noi resta e si appresta
a un giorno pieno.
I dispositivi spenti illudono
ci sia un altro tempo nel tempo:
le bambine mettono fiori nelle pentole
gioco o rito che non va decifrato
che non celebra niente
che non significa niente
mentre ci arresta una paura di noi.
Puoi dirlo quel senso di avvicinamento
che ti spinge giorno dopo giorno?
Un campo aperto, privo di alberi,
un campo vuoto, lo sguardo.
INSETTI I
Sono arrivati i calabroni.
Quest’anno in anticipo
per il gran caldo di fine inverno.
Infestano i balconi, sbattono alla
finestra
con un rumore sordo, ci chiediamo
quale dolore provino.
A volte sembrano muoversi confusi,
ne abbiamo paura.
Non siamo in grado di dire se siano
maschi o femmine.
È difficile comprendere il motivo
del loro arrivo. Perché questo
condominio?
Il calabrone non ha interesse
per l’uomo, il caldo finirà.
Potremmo dire che ci guardano con
sospetto,
attendono la preda (pezzetti di carne,
rimasugli)
o forse non sanno, semplicemente vedono
gesti disperati muti ripetuti.
Celle, cellette, nidi pronti a
sfarinarsi,
saliva mista a legno, attacca e
costruisci,
prevedi, muori per la specie.
TOTALITÀ
Qual è il momento, quando finisce l’ansia
e dal pavimento s’alza il desiderio.
Fuori solo bestie che passano,
una lunga notte di attività umane ridotte:
questa è l’immagine di una vita senza spreco.
Puoi veramente ricordarlo?
A pochi metri dal tavolo, tutto
dispiegato
in un dispositivo,
un unico me moltiplicato
preso da tutti, ignaro di tutto.
Bernardo De Luca
(Napoli, 1986) insegna Letteratura italiana presso l'Università degli Studi di
Napoli "Federico II". Si occupa prevalentemente di letteratura
moderna e contemporanea. È redattore della rivista «Filologia e Critica» e
della collana Bites900. Ha curato l'edizione critica e commentata di Foglio di
via di Franco Fortini (Quodlibet, 2018) e pubblicato la
monografia Il tempo diviso. Poesia e
guerra in Sereni, Fortini, Caproni, Luzi (Salerno Editrice, 2022). Membro
della giuria del Premio Internazionale Franco Fortini. Ha pubblicato le
raccolte poetiche: Gli oggetti trapassati, d'if, 2014; Misura,
Lietocolle-Pordenonelegge, 2018; Campo aperto, Amos edizioni, 2022.
Nessun commento:
Posta un commento