“Di un fatto può essere autore anche un cane, ma una parola può essere pronunciata soltanto da un uomo”. (Joseph Roth)
Ed è forse la parola a simboleggiare meglio
quell’enigma specifico che l’uomo è , soprattutto per se stesso, all’interno
dell’insondabile enigma dell’esistenza universale. Ogni uomo è definito dalle
parole che pronuncia, che sceglie, che sa dire o che non sa dire, che ha
immaginato o che non ha mai immaginato e conosciuto. Ogni parola anche la più comune, anche quella
più lisa dall’uso, anche la più abitudinaria ha una lontana reminiscenza di
irripetibile originarietà e stupore. Il compito della parola poetica è quello
di ridestare la dimensione germinativa del linguaggio, lo stupore del dire e
dell’ascoltare.
“La parola che il poeta usa è una parola che in genere è richiamata alla sua integrità e alla sua pienezza di significato: è potenziata al punto da esplicare quella creatività e provocarla in altri. Quanto è difficile preservare alla parola questa potenza creatrice, potenza che è in rapporto, dicevo, con il versetto giovanneo: "in principio era il Verbo". La potenza che è stata messa nell'uomo deriva direttamente dal divino: quanto è difficile preservare quella energia, quella forza della parola che la racchiude, quando è appunto al più alto grado di purezza e innocenza. Tutto nella pratica della vita, nella storia, tende a corromperla la parola, a destituirla di senso, a renderla convenzionale, non più spirito, ma lettera”.
In questo passaggio Mario Luzi coglie un aspetto essenziale, la parola è
spirito, aldilà di qualsiasi dimensione strettamente religiosa, essa è spirito,
è principio creatore. La parola è sempre un inizio. Parlare non è
ripetere ma iniziare. In quanto l’uomo ha le parole può esprimere le proprie
emozioni. In quanto esiste la parola l’uomo pensa e non viceversa. La parola è
il nostro orizzonte che non potremo mai trascendere, come un corpo non può
saltar fuori dalla propria ombra.
In cosa consiste la
peculiarità della parola poetica? Forse consiste nel soffermarsi presso la
dimensione originaria del linguaggio. Il linguaggio e la parola aprono il mondo
che non è mai qualcosa di dato ma si presenta sempre come un evento. Attraverso
esso ci parla un’origine, a volte in maniera chiara e fulminante, altre in
maniera enigmatica. In quanto la parola può solo sfiorare l’origine, mai
afferrarla, ma la parola poetica non può non tentare di farlo. In questo la
parola poetica è condannata sin dal suo inizio al fallimento. Questo è il suo
destino e la sua grandezza, la sua apertura essenziale, apertura silente in cui
si rivela il mondo. Il silenzio è lo sfondo, il contrasto che permette alla
parola di essere. È la sua linfa e sorgente. La poesia è la mappa, sempre
incompleta, di questo silenzio che si mostra, viene alla luce nell’esser muto e
opaco di ogni cosa, rendendolo per un attimo trasparente: “La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a
dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina”. (Giuseppe
Ungaretti)
Eppure
la parola nella sua radicale impotenza ci permette di abitare e, in
piccolissima parte, di costruire quel labirinto che dà senso ai nostri giorni,
un labirinto da cui è impossibile uscire e che nel suo dedalo di falsi
sentieri, di strade senza via d’uscita, svolte improvvise ci ammalia, ci illude
e ci disperde. Le parole nel loro affiorare alle labbra o nell’apparire sul
foglio bianco, nell’attimo germinativo accennano all’essenza dell’esser cosa,
al tremendo e al sacro che abita l’esistere di ogni cosa, perché ogni singola
cosa, ogni attimo, oscilla paurosamente tra l’essere e il niente. Il poiéin, il fare poetico, è una visione,
lucida e allucinata, che ha trovato parola, un pensiero sul mondo e sulle cose
e questo pensiero già da sempre è diventato poesia, ossia ha attraversato una
regione in cui le parole non sono solo mezzi ma sono destino, sono,
disperatamente, le cose che dicono. La parola si dà come ferita radicale da cui
sgorga il sangue della vita. La parola è al tempo stesso farmaco e veleno. La
poesia è questo sforzo di dire ogni cosa e arrivare al limite di ciò che si
sottrae alla parola. Eppure noi siamo tutte le parole che abbiamo pronunciato
nella vita e che a loro volta ci hanno definito e ci scrutano in bilico tra un
ricordo totale e un oblio radicale. Nessuna di esse forse potrà salvarci ma la
parola dice e nel dire apre vie, sentieri, apre un senso, nuove ramificazioni, forse
quello che ci definisce una volta e per sempre. E come nota Ernst Jünger: “Ogni parola
costituisce una specificazione, una ramificazione, – che anzitutto si distacca
dal tronco del linguaggio, poi però anche dalle sue radici, dove abita il
silenzio”. In fondo a ogni parlante,
nella sua esistenza, è assegnato il compito di percorrere quelle ramificazioni
che le parole sono, fin dove il suo stupore lo conduce e le sue forze glielo
consentono.
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