martedì 19 dicembre 2023

LA PAROLA CHIAVE: CONFLITTI - Angela Caccia

 

Diciamocelo: non c’è contesto che sia privo del conflitto. Da quello interpersonale, più quotidiano e spiccio, a quello sociale, sino al geopolitico che coinvolge nazioni e terrorizza con l’epilogo guerra. Ma se è vero che il conflitto fa parte della complessità umana, se è addirittura un catalizzatore per il cambiamento, la crescita o comunque lo sviluppo, perché è così difficile da gestire?

“Il vecchio era ancora debole e sapeva che lo era solo a causa del cuore. Ma un uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto” (da Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway), parole che riflettono la forza e la resistenza di Santiago, il protagonista, e raccontano quanta tenacia e resilienza  può abitare il cuore umano di fronte gli ostacoli, quasi a ribadire che la vera sconfitta è rinunciare ad appianarlo quel conflitto.

La buona comunicazione resta la base per ogni risoluzione costruttiva. Eppure, se c’è una cosa di cui non mi capacito è il pensare a quanto possa diventare vacua, polverone di inutilità; come degeneri la sua funzione, se ne strumentalizzi l’uso sino a vuotarla dell’anima vera, a strattonarla fecendone ora un proiettile ora un ramoscello d’ulivo: sto parlando della parola, il Giano bifronte che guarda verso l’aggressività più feroce e, al tempo stesso, verso i più compassionevoli propositi di pace.

 Del resto, nelle intenzioni, siamo tutti pacieri, pacifisti, pacifici ma, una scintilla, e ci ritroviamo armati sino ai denti. Oggi che il puzzo di sangue e di cadaveri travalica ormai da ogni immagine o video, torna facile dichiarare latitante Dio nella sua impotenza, il fallimento suo e della sua amata creatura, se questo stesso Dio non avesse il volto di ogni vittima.

 Chi, con più o meno intensità, non solidarizza col debole? Chi non ha una parola di conforto o, addirittura, la soluzione di ogni conflitto in tasca? Ma, se la buona comunicazione resta l’ultima spiaggia del conflitto, mi chiedo: chi, dialogando, sta veramente “in postura di pace” lì dove pace non è solo una condizione esterna, ma dovrebbe necessariamente riflettere un atteggiamento interiore? Paradossalmente, lei, la pace, non avrebbe bisogno di alcuna operosità – non cortei, non trofei, non proteste lacrime e sangue -se scaturisse da un intimo  spazio saldamente acquisito e definitivo che nessuna violenza potrebbe scalfire. E torna alla memoria Gandhi che, colpito a morte dal suo assassino, salutò quest’ultimo e la vita, cadendo a terra a mani giunte, come in preghiera.

E, ancora, mi chiedo quale credibilità abbiano i tanti uomini politici, beniamini tutti della pace e, poi, così violenti nel linguaggio da innescare autentiche bombe di odio.

Se così fondamentale è la comunicazione e, di conseguenza la parola, quest’ultima ha un preciso peso solo se si traduce nelle modalità e nell’azione correlate all’enunciato. E mi torna in mente il termine ebraico Dabar che esprime la convergenza tra il dire e il fare: nel pensiero esisterebbe già il germe dell’azione, né c’è un corrispettivo nel dizionario italiano. Eppure è così importante che pensiero/parola/azione siano sempre tra loro correlati e stretti alla stessa emozione che, oggi, il Vangelo sarebbe solo carta straccia senza una culla, una croce e un sepolcro vuoto.

Col cuore della fratellanza che si dona a tutti i Caino e chiama Abele a prendersi cura, nonostante tutto, di suo fratello 

 AUGURI! …

 

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