Diciamocelo: non c’è contesto che sia privo del
conflitto. Da quello interpersonale, più quotidiano e spiccio, a quello
sociale, sino al geopolitico che coinvolge nazioni e terrorizza con l’epilogo
guerra. Ma se è vero che il conflitto fa parte della complessità umana, se è
addirittura un catalizzatore per il cambiamento, la crescita o comunque lo
sviluppo, perché è così difficile da gestire?
“Il vecchio era ancora debole e sapeva che lo era solo
a causa del cuore. Ma un uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere
distrutto ma non sconfitto” (da Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway),
parole che riflettono la forza e la resistenza di Santiago, il protagonista, e raccontano quanta tenacia e resilienza può abitare il
cuore umano di fronte gli ostacoli, quasi a ribadire che la vera sconfitta è
rinunciare ad appianarlo quel conflitto.
La buona comunicazione resta la base per ogni
risoluzione costruttiva. Eppure, se c’è una cosa di cui non mi capacito è il
pensare a quanto possa diventare vacua, polverone di inutilità; come degeneri la
sua funzione, se ne strumentalizzi l’uso sino a vuotarla dell’anima vera, a strattonarla fecendone ora un proiettile ora un ramoscello d’ulivo: sto parlando della parola, il
Giano bifronte che guarda verso l’aggressività più feroce e, al tempo stesso, verso i più compassionevoli propositi di pace.
Del resto, nelle intenzioni, siamo tutti
pacieri, pacifisti, pacifici ma, una scintilla, e ci ritroviamo armati sino ai
denti. Oggi che il puzzo di sangue e di cadaveri travalica ormai da ogni
immagine o video, torna facile dichiarare latitante Dio nella sua impotenza, il
fallimento suo e della sua amata creatura, se questo stesso Dio non avesse il
volto di ogni vittima.
Chi, con più o meno intensità, non solidarizza
col debole? Chi non ha una parola di conforto o, addirittura, la soluzione di ogni conflitto in tasca? Ma, se la buona comunicazione resta l’ultima spiaggia del
conflitto, mi chiedo: chi, dialogando, sta veramente “in postura di pace” lì
dove pace non è solo una condizione esterna, ma dovrebbe
necessariamente riflettere un atteggiamento interiore? Paradossalmente, lei, la
pace, non avrebbe bisogno di alcuna operosità – non cortei, non trofei, non
proteste lacrime e sangue -se scaturisse da un intimo spazio
saldamente acquisito e definitivo che nessuna violenza potrebbe scalfire. E
torna alla memoria Gandhi che, colpito a morte dal suo assassino, salutò
quest’ultimo e la vita, cadendo a terra a mani giunte, come in preghiera.
E, ancora, mi chiedo quale credibilità abbiano i tanti
uomini politici, beniamini tutti della pace e, poi, così violenti nel
linguaggio da innescare autentiche bombe di odio.
Se così fondamentale è la comunicazione e, di
conseguenza la parola, quest’ultima ha un preciso peso solo se si traduce nelle modalità e nell’azione correlate all’enunciato. E mi torna in mente il termine ebraico Dabar che esprime la
convergenza tra il dire e il fare: nel pensiero esisterebbe già il germe
dell’azione, né c’è un corrispettivo nel dizionario italiano. Eppure è così
importante che pensiero/parola/azione siano sempre tra loro correlati e stretti alla stessa emozione che,
oggi, il Vangelo sarebbe solo carta straccia senza una culla, una croce e un
sepolcro vuoto.
Col cuore della fratellanza che si dona a
tutti i Caino e chiama Abele a prendersi cura, nonostante tutto, di suo fratello
AUGURI! …
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