Dio ci ha donato la memoria, così possiamo avere le rose anche a dicembre (James Matthew Barrie)
Prima
della malattia, ho rischiato altre volte di morire. Questo, almeno, mi hanno
spesso raccontato. Deriverà da qui la fissa per il Settimo Sigillo. Mi accomuna
a Woody Allen. Solo che nel mio caso è meno comica. È da un po’ che ti seguo,
dice la Morte al Cavaliere. Ho visto il film di Bergman per la prima volta a
San Vito di Taranto. A quei tempi, non c’era molta possibilità di scelta in
televisione. Ecco che a cinque anni sono rimasto incantato a vedere questo film
di cavalieri e saltimbanchi. Non raccontava, però, di duelli e non faceva
affatto ridere. Mi è rimasta presente la sensazione di allora, misto di paura,
incomprensione e incanto. I romantici ottocenteschi la definirono con la parola
sublime. Non so. All’opposto, non saprei darle il nome giusto. Provo solo a
descriverla, perché così l’ho provata e la porto ancora con me.
Dai
racconti di mia madre, la prima volta è stata a Matera, pochi giorni dalla
nascita. Mi stavano cambiando. Io ero sul tavolo della cucina della casa che
ospitava questa coppia in cattività. C’era solo lei? C’era anche mia zia? Non
si sa. Mio padre su questi fatti è sempre stato insolitamente silenzioso o
reticente. Sta di fatto che qualcuno si distrae per un istante ed io rotolo e
cado dal tavolo. Oddio. Che spavento. Ovviamente non mi ricordo nulla. Non so
come non ti sia fatto niente. Non hai nemmeno pianto. Anzi, proprio per questo
ero terrorizzata. Però, quando ti ho preso in braccio, hai sorriso. Figlio mio
quante me ne hai fatte passare. Sulla fronte, appena sotto l’attaccatura dei
capelli ho una piccola cicatrice. Non so quando me la sia procurata. L’ho
sempre collegata a questo episodio. Anche se non mi hanno mai parlato di una
ferita.
La
seconda volta è capitato a Siracusa. Qui i miei genitori si erano trasferiti
per via del lavoro di mio padre, sottufficiale della Marina. Su questo periodo
lui è meno laconico. Non poteva comprarsi le sigarette e spendeva un sacco di
soldi per acquistare il costosissimo, dicono, cervello di agnello con cui
alimentarmi come ricostituente. Mi ero, infatti, preso una difterite. Di questo
episodio mio padre ha sempre parlato con angoscia. Devo esserci andato molto
vicino. Non si sa come, forse mi ammalai a causa di un latte non pastorizzato.
Intorno alle tonsille e alla gola si era già formato un alone infiammato di
colore grigio. Addirittura, avevo cominciato ad avere problemi respiratori. Si
muore per asfissia. Ci ero già passato. Alla nascita, ero divenuto cianotico, a
causa dei miei cinque chili e mezzo. Per la sofferenza che involontariamente le
avevo inferto e per la bruttezza dovuta al forte colore scuro, mia madre non
volle vedermi sulle prime. Ce la feci. Anche questa volta ce l’ho fatta.
Chissà
dove volevi andare? Mia madre l’ha sempre chiamata fuga. Non lo so. Considerato
il corredo di secchiello e paletta, credo che volessi andare in spiaggia,
semplicemente. Semplicemente per me. Non per un bambino di quattro anni che se
ne va da solo per strada. Ancora una volta sono stato in pericolo. Anche di
questo episodio non ho più alcun ricordo. In testa mi restano solo vaghe
immagini di San Vito. Mio padre lavorava all’Arsenale di Taranto. Gli ho
chiesto la via, Via Aguglia. Sono andato su Google Maps ed è stato come
viaggiare indietro nel tempo. Le immagini del satellite mi hanno fatto rivedere
luoghi familiari che nella mia coscienza non erano affatto scomparsi dopo oltre
cinquanta anni.
Via
Aguglia è una stradina di accesso a una serie di villette. Sbocca su Viale
Jonio, che in realtà è una strada provinciale, la 99. Vista dall’alto è un
luogo ambiguo. È un tipico abitato di villeggiatura vicino al mare, nello
stesso tempo, sembra uno dei tanti agglomerati caotici e ciechi della periferia
urbana, dove depositi e officine, che non sai mai se attive o in abbandono, si
mischiano con le abitazioni. La via sbocca in linea con le strisce pedonali che
consentono l’accesso sull’altro lato della strada. Qui si alternano una stretta
lingua di macchia mediterranea, una precaria zona pedonale scandita da una
serie di dissuasori di cemento, e l’accesso irregolare ad una spiaggia e al suo
bagnasciuga. Le strisce pedonali mi appaiono un involontario lascito del
passato. Mi resta ancora l’immagine di me seduto dentro una carriola da
muratore che il padrone di casa, nostro vicino, trasportava per andare al mare,
insieme alle due figlie che lo seguivano. Mi ricordo la sua pipa e il basco
nero. Per andare al mare attraversavamo quel passaggio, forse, senza bisogno
allora di strisce pedonali. Penso poi che questo sia il luogo dove mi sono
avventurato da solo gettando mia madre nel panico. Oggi Google Maps mi fa
scorgere un segnale con un avviso perentorio e per me definitivo: Area
sottoposta a sequestro giudiziario. Vietato l’ingresso.
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